«Che fai Ettore? Chiudi la finestra.»
Madame Mangiagalli erasi espressa con la sua più forbita loquela nell’apostrofare il di lei consorte, dottor Ettore Marosca, vice direttore dell’Agenzia Bancaria Cassa di Risparmio Rurale di Sommarito, in merito alla mania che egli aveva di sostare, di tanto in tanto durante le feste a respirare una boccata di quella buona, aria si intende, che richiedeva il disassamento di almeno un battente d’una qualsiasi finestra del locale ove v’era l’intrattenimento.
Il Marosca alzò gli occhi al cielo, sospirò e si apprestò a richiudere il serramento. Il problema era che la stanza era di modeste dimensioni, decisamente sottodotata in relazione agli inviti che il collega e superiore professor Vito Scatozzi aveva pensato di rivolgere a tutto il personale più distinto dell’agenzia per la notte di Capodanno.
Detto invito era agognato da tutti al pari di una chiamata a corte. Sotto sotto, sardonicamente il professor Scatozzi, che non era un ingenuotto, aveva stabilito quell’usanza che gli serviva per metter un po’ di zizzania (pepe nel culo, diceva con espressione poco contegnosa agli intimi) tra gli impiegati. Egli era infatti appassionato assai di storia e nella fattispecie di quella storia che va sotto il nome di ‘ancienne réggime’ come pronunciava lui in schietto napoletano, entro la quale si annovera una figura assai da lui ammirata e fin quasi venerata che era quella dell’augusto monarca amante della centralità del sole, sì proprio lui il Luigi quattuordecimo.
«Divide et impera» rammentava sempre il direttore al Marosca che era destinato in un futuro assai lontano a reclamare il suo posto, e lui, lo Scatozzi, divideva e imperava, perciocché, pur di poter essere invitati al ricevimento che parea essere di gran lunga l’evento mondano più importante di qualsiasi altra manifestazione nel paese di Sommarito, ognuno si era pian piano ridotto a fungere da galoppino nei servizi più umilianti che egli riuscisse a immaginare e facea la faccia di farli volentieri, nell’aspettativa dell’agognato invito.
Il Marosca però no. La sua posizione era troppo solida per paventare anche solo d’essere scartato e di questo privilegio la signora Mangiagalli andava vantandosi, arruotandolo attorno alla sua non troppo diafana figura come un pavone che si adorna con le sue piume e si specchia nell’acqua per contemplare la propria bellezza.
Marosca invece stava zitto. Nel corso della sua vita aveva maturato qualche convinzione e una di quelle era che tanto in fretta si sale all’eccelso quanto in fretta si può cadere. E sapeva anche che con un narciso quale lo Scatozzi era importante non dar troppo a vedere la sua sottomissione se pur non occorreva dimostrare una insofferenza se non proprio ribellione aperta. «In medio stat auro» si diceva sempre e gongolava di questa citazione che egli conosceva a metà, giacché il senso compiuto, il “sensus plenior”, non gli era del tutto chiaro, ma andava bene così.
Quel che invece non poteva sopportare era tutto il dimenarsi di quella gran popputa che era la moglie quando trovavasi (in quell’unica occasione annuale) in società. Ella pareva invasata: correva or di qua or di là e cercava d’attaccar bottone a tutte le dame che bevevano con il mignolo alzato in segno di distinzione e la squadravano alquanto annoiate di tutto questo agitarsi e aggirarsi. Egli era sicuro che quando ella volgeva loro le spalle esse attaccavano a spettegolare e a commentare malevolmente ogni dettaglio della formosa madame. A dir il vero questo manifesto disprezzo che egli vedeva e di cui la consorte, per fortuna, non s’accorgeva, gli dava una punta sui nervi.
In fondo il suo spirito era ribelle ed egualitario, seppur domato dalla necessità di una discreta convenienza, e provava il morso dell’invidia per non essere di quelli che ricevono il saluto piuttosto che doverlo dare sempre. In tal guisa si reputava un inferiore e ne soffriva, poi si consolava argomentando che le glorie del mondo son transitorie e che di fronte a quattro assi di legno non c’è boria che tenga, ma intanto nella vita quotidiana tutta questa pompa diniegante nei confronti della povera Elvira Mangiagalli, se non altro per il fatto che ella era sua moglie, un poco lo stingeva.
Chiuse la finestra con un gesto brevemente più brusco del normale, ma fatto di sottecchi in modo che nessuno potesse notarlo e si diresse verso il tavolo del rinfresco che riluceva di babbà e di perline di panna.
Non era ancora mezzanotte e la masnada in ghingheri trepidava nell’attesa. Cercava di ingannare la spiacevolezza di trovarsi con molti antipatici insofferti mediante un torrente di sorrisi e di battute di circostanza. Quand’ecco d’un tratto egli sentì come uno scossone che gli attraversò lo spirito.
Il brusio e il cicaleccio della sala svanirono per lui come per incanto quando vide sull’attaccapanni dell’ingresso una cuffietta rossa minuscola. Doveva essere d’una signora, la circonferenza del capo era assai breve e la foggia pareva tutta femminile con quel pon pon di raso arrotolato che formava una specie di puntino sulla ‘i’ del capo femminesco su cui si sarebbe poggiato il cappellino.
Egli si mise a squadrare e a rimirare quel tocco rosso mentre nella sua memoria si apriva qualcosa che era rimasto serrato per tanti e tanti anni, così tanti da non poter più essere considerato un ricordo appartenutogli un tempo e così vivacemente.
Sentendosi barcollare e prendere da un vuoto allo stomaco cercò una poltrona ma tale che fosse dirimpetto all’ingresso cosicché egli potesse pur sempre osservare l’appendiabiti e rifletterci un po’ sopra.
«Che fai? Vieni a conversare» gli disse ringhiando madame Mangiagalli che passava di lì nel tentativo d’abbordo della signora Pezzutti, la moglie del notaio Pezzutti che tutti davano come uno dei più squallidamente ricchi di Sommarito. Egli la ignorò e continuò quel suo lavorio interno che cercava un motivo, un filo, una trama in grado di riportarlo a qualcosa ch’ei sapeva di sommamente importante, così vitale da fargli quasi mancare il respiro. Ella vedendolo così assorto pensò che stesse crollando di sonno e decise di lasciarlo stare: in fondo era Capodanno e non erano soli a casa e quindi che facesse un po’ quel che gli pareva. Per avere un’altra occasione così si sarebbe dovuto aspettare il Capodanno prossimo venturo ed ella non voleva perdere neanche un secondo di quel ghiotto divertimento.
Ettore Marosca adesso si trovava in un mare procelloso interno che voleva e non voleva lasciarlo condursi all’isola del ricordo tanto agognato: qualcosa in lui diceva di non spalancare quel varco, di restare sulla scialuppa, di non voler tentare la sorte del moto ondoso che si schiantava sull’isola. Un’altra parte invece era attirata da un dolce che stava fuoriuscendo dal cuore, una sensazione di calore forbito e appagante, struggente di melanconia infantesca in grado di avvolgere tutte le tribolazioni della sua vita e di proiettarle entro una lama di luce che parea stagliarsi sulla costa lontana – tanto per mantenere la metafora precedente.
Con la mano tremante fermò un cameriere che passava impettito con un vassoio in mano. Si fece dare un bicchiere e tracannò il contenuto versando un fuoco dentro lo stomaco che ebbe l’effetto di mettergli a fuoco il languore proveniente dall’altra immagine, quella legata al cappellino rosso. E d’un tratto gli sovvenne tutto.
Marina. Un volto si stampò nei suoi occhi, così come l’aveva visto la prima volta al cancello brumoso della vecchia casa sulla via Mazzoleni. Lui aveva tredici anni allora. Ella gli apparve diafana e bianca di carnagione, con la bocca chiusa in un ché di sprezzante e di orgoglioso che gli aveva conquiso il cuore. Non ricordava a onor del vero il motivo per il quale egli s’era trovato al cancello di quella villa. Ricordava soltanto il bel viso e il corpo giovenile che gli parve allora sommamente desiderabile al punto che, dopo che se n’era andato, sentì quel suo cuore d’allora, affatto aperto al sentimento d’amore, stretto in una adorabile morsa.
Rinvenne così, mentre ne stava seduto a tracannare qualsiasi intruglio gli venisse servito, la lunga teoria dei giorni sottomessi a quel volto e come egli fosse stato suggetto a dilatazioni estreme atte a comprendere il cosmo tutto nel suo limpido svolgersi, così come ad abbattimenti obnubilanti, giorni nei quali egli si interrogava sul perché vivere ancora, se s’era privati di quel così bel saluto.
L’ideale espresso dalle ciglia sbarazzine di quella fanciulla era in lui penetrato così a fondo e l’avea portato così in alto a quel tempo che sicuramente credeva non sarebbe stato possibile in vita amare d’amore così puro altra donzella.
«Ohè, che ti stai addormentando?» gli urlò nelle orecchie la Mangiagalli, la sua divinità del dipoi, colei che dopo breve corteggiamento, alquanti anni dopo l’avea condotto al talamo nuziale.
Ettore, infastidito per la fantasia interrotta fece un gesto di diniego che la consorte interpretò come un «Lasciami stare ché sono ubriaco». Sospirò e si voltò, nuovamente dedita all’arpionamento della Lantossi, la moglie del Primario di Uretrologia della Clinica patologica di Demarzi di Sotto, una specie di magione di cura per anziani che si estendeva nel territorio dell’omonimo paese confinante con Sommarito.
La cuffietta. La cuffietta. La rivedeva ancora, quasi simile a quella che era ora appesa lì, addosso al cranio perfetto della Marina quell’inverno, che la portava a spasso per le vie della cittadina, quando andava a scuola, quando sostava davanti ai negozi, quando, confusa nella massa tremulante dei tredicennidodicenniundicenni rotolantisi nella neve portava al paragone di quel soave colore la sfumatura ancora più soave delle sue gote irritate dal freddo.
Il Marosca cominciò a precipitare in un languore sottile che sdilinquiva lo scorrere degli anni dal momento attuale a quel momento fatale che per tanti anni avea sepolto. Amore sì possente che non avea mai avuto momento di dichiarazione, essendoselo egli tenuto, quasi bimbo ancora, nel petto e nascosto e mai rivelato ad alcuno, neppure a uno degli amichetti di bisboccia e porcellate che invece amavano spiattellare al mondo le avventure lor, più o meno vere. No. Quello era suo, solo suo quel sentimento; divenuto in quel frangente quasi superstizioso aveva tema che il divulgarlo lo imputridisse, lo sporcasse e lo rendesse meno puro con la minaccia tutt’altro che attendibile, che, qualora egli si fosse macchiato di una colpa sì grave, l’effetto sarebbe stato devastante per quanto riguardava la considerazione che ella avea di lui.
La qual Marina si portava senza punto accorgersi di tutto quello scrutare, quel guatare, quell’arzigogolare nei suoi confronti del compagnuccio suo che credeva di morire ogni volta che la incontrava.
Ettore si passò una mano sugli occhi e in quella posa ebbe modo di vederla, la mano propria. Invecchiata, chiazzata di macchie e con la pelle incipientemente aggrinzita. Chissà dove era finita la Marina, si chiese, e se anche lei adesso da quel puro fiore che era ed era rimasta nella sua memoria fosse divenuta una matrona afflosciata in attesa della sua ora.
Ma no. Ma no.
Una simile creatura non poteva esser divenuta così. Doveva aver conservato intatta la bellezza che le sue aspirazioni eterne avevano consegnato all’etereo infinito del tempo.
E così fantasticava sin quando udì uno squillo di risata che lo fece sobbalzare.
Eppure…
A ben guardare…
A ben sentire…
Ma sì. La linea sottile argentina del riso che avea appena udito non poteva non essere quella della dama in questione. Un po’ più grosso, forse, un po’ più ansante ma suo, senza dubbio.
«Ella è qui» si disse il Marosca con una improvvisa smania che gli fece dolorosamente compulsare il cuore.
Senza voltarsi aguzzò l’orecchio e gli parve di riconoscere nel cicaleccio che proveniva dal salotto vicino, una linea di voce che poteva corrispondere al tono ch’ella avrebbe dovuto avere. La sua agitazione raggiunse i vertici dell’empireo.
«Debbo vederla» si disse Ettore alzandosi barcollante dal divano ove era seduto. Esitò qualche istante poi, cercando di nascondere il tremito che gli stava pervadendo tutto il corpo si avviò verso la porta che divideva i due ambienti. Una sbirciatina, un’unica sbirciatina e gli sarebbe bastato. Cogliere per un istante solo la verità di quel sogno che s’era portato dietro per sì accumulo di tempo e che aveva posato dentro le pieghe dei suoi sentimenti arrotolati fino a qualche istante prima attorno alla modesta quotidianità del suo vivere ammogliato e sufficientemente satisfatto. L’erompere dell’affezione che si rinovellava per quel nome, Marina, gli mise in luce la mediocre libagione cui s’era abbeverato per tutto quel tempo, e il desiderio di distendere ogni ostacolo per lasciar correre il fiume in piena che ora gli traboccava nel ventre.
Si avviò ciondolante, come ubriaco, verso il salotto.
Su una delle sedie sedeva una matrona grinzosa, grigia di capello e tremolante nella massa che rideva forzata e dava pacchette di condiscendenza alla Mangiagalli.
Il Marosca ebbe una sfocatura di acerba e amarissima delusione: la fissò con pauroso pavento e convenne senza dubbio alcuno che sì, quel donnone era lei. Riconobbe l’espressione sbarazzina del sorriso incurvata dal tempo in avido disdegno, in insoddisfazione repressa, in cupezza melanconica. Purtuttavia ella rideva e rideva e, leggiadra come una cavolaia nel tramonto incipiente, svolazzava or di qua or di là con lo sguardo alla ricerca di qualcun che l’apprezzasse e la stimasse per un ultimo, disastrato lucore di bellezza. Il Marosca vacillò, gli occhi annebbiati.
«Oh, ecco mio marito» cinguettò la Mangiagalli in Marosca. «Vieni qua, amore che ti presento la signora Gozzani.»
Egli si riebbe. Dunque non era lei. Sfoderando un sorriso annoiato di circostanza e con il respiro appena libero dall’affanno di quella delusione, fece un impeccabile baciamano poi biascicò: «Madame. Ci conosciamo?»
Ella rise vivacemente: «Lei è di Sommarito vero? Mi pare di ricordare… è tanto tempo che manco dal paese. È per via di mio marito…. sempre di qua e di là… Forse il mio nome da maritare le dice qualcosa… Mazzanti»
Il Marosca accusò il colpo. Farfugliò un complimento poi si ritirò mentre la Mangiagalli lo guardava stranita.
Si sedette nella sua sedia. Strappò a un cameriere impettito un bicchiere di intruglio e contò le lacrime che scendevano nel liquido a una a una come una piccola cascatella in piena.