Iniziamo l’analisi del testo “In difesa della poesia” pubblicato nel 1821 da Percy Bissey Shelley in risposta al saggio dello scrittore Thomas Love Peacock (1820) che invece sosteneva l’inutilità della poesia. Acceso da un sacro furore di vendetta per “la grave offesa recata alle Muse” Shelley intende organicamente difendere non solo l’utilità della poesia in un mondo tanto basato sulla materialità e sul denaro quanto la sua necessità.
Argomento quanto mai attuale che permette di sviscerare alcune tematiche socialmente pregnanti in relazione alla poesia e all’arte in generale. Perché la poesia è necessaria? Perché secondo Shelley la sostanza della vita intellettuale sta nell’immaginazione che si oppone alla ragione: la prima è l’ideatrice la seconda è l’esecutrice dei voleri della prima. E la poesia è l’espressione dell’immaginazione. Solo attraverso la poesia si riesce a percepire il valore delle proprietà delle cose. Chi affronta solo razionalmente la realtà enumera le proprietà delle cose ma occorre qualcosa in più per entrarci e comprenderne il valore. L’immaginazione è dunque il principio della sintesi, è il principio del ‘fare‘, il principio dell’armonizzare.
In effetti, pare dire Shelley, solo chi trascende il livello del riconoscimento delle cose (ragione) riesce a costruire una visione armonica, fatta di relazioni e di interdipendenze che costituiscono una consonanza d’intenti equilibrata ed effettuale (ossia che crea effetti di comprensione). La via per raggiungere questi obiettivi è la poesia che deriva appunto dal verbo poiein, cioè ‘fare’.
Dunque la realtà è in costruzione. Le parole ce la fanno penetrare. In modo particolare le parole poetiche.