Nella penultima parte dei Pensieri sull’arte poetica del 1897, Pascoli arriva al nocciolo della questione: dopo aver constatato che per fare poesia occorre un’anima (anima, si badi bene, non semplicemente ‘pensiero’) disposta a vedere in profondità nelle cose, si interroga nuovamente sul senso e sull’utilità dell’agire poetico. Qual è la verità ultima della poesia? Secondo lui la sua utilità morale e sociale consiste nel fatto che attraverso di essa il poeta riesce a “trovare nelle cose il loro sorriso e la loro lacrima“. Occorre cioè non semplicemente ‘vivere’ bensì trascendere, entrare dentro le cose e comprenderne il senso profondo. Come si fa a ottenere questo risultato? Come si fa cioè a non considerare gli eventi, i fenomeni quotidiani semplicemente per quello che sono, bensì per il significato che portano? Secondo Pascoli bisogna attraversare l’oscuro tumulto dell’animo umano con l’occhio semplice e sereno del fanciullino che è dentro ciascuno di noi. L’effetto di questo attraversamento è la tranquillità che nasce dal saper vedere luminosità e bellezza in tutto quello che capita nonostante le oscurità e le tenebre. E se non c’è proprio niente di bello, niente di luminoso dentro tale oscurità? Ebbene quegli occhi allora “si chiudono a sognare e a guardar lontano” come a dire che l’estremo rimedio alla miseria della condizione umana è un salto nell’altrove, nel sogno, nell’ideale. Se non possiamo trovare nulla di positivo nel mondo, sembra affermare Pascoli, possiamo però mediante la poesia almeno creare un mondo appagante che culli il nostro desiderio di positività. Naturalmente egli pone i due risultati (vedere il bello nel quotidiano oppure trasporre la bellezza in un mondo ‘ALTRO’) su gradi diversi per prevenire l’obiezione della poesia vista come fuga dalla realtà. Il primo di questi gradi è il più efficace, il più degno della natura umana: entrare nella vita e vederne il positivo sembra essere l’operazione più alta, più nobile. L’altro aspetto, quello di sfondare il muro del reale per navigare nelle regioni ideali appare agli occhi del poeta un terreno meno sicuro, viene paragonato all’operazione che fa il viaggiatore che ama solo i luoghi lontani ed esotici e non sa vedere la bellezza del paesaggio abituale. Eppure è un’estrema ratio importante perché fa compiere comunque un salto al lettore e, vellicandolo con la sincerità di quegli occhi da fanciullo che tutti hanno e celano dentro di loro, lo conduce in un mondo incantato che risuona del reale e indica varchi inaspettati in grado di illuminare perfino le oscurità senza senso.