A vederli così i ruderi di questa cascina…
Come sono lontani i tremori del corpo fanciullo dietro questi sassi, allato i muri di mattoni rossi, tra le ortiche e le chiazze di petrolio vicino a quel tinaggio, dove si entrava solo a volte senza progetto, per pura curiosità.
O l’angustia del pozzo e della sua eco entro la quale sprofondavano i sassi tirati per valutarne la profondità.
Sì, adesso è tutto diverso, offuscato in contrasto con la vividezza d’allora quando esploravo il mondo e pur possedendo l’acutezza di una vista affacciantesi sui dintorni non ne avevo coscienza.
Ogni ora chiede il suo tempo, come una rada risonanza in un morto mare di sogni e inopinate tendenze, un tira e molla con la proprio anima, come insondabili sono i ricetti nei quali avviene questo lieve ricambio d’aria, i polmoni, voglio dire, che s’infettano di lucore.
Al liscio triviare dei corsi della vita lascio questi ricordi, come se ne avessi una liberazione, ché in fondo dobbiamo liberarci di noi stessi almeno quel poco che serve per fare chiarezza sul proprio stato vitale.
Ed ecco il motivo per cui sono ritornato qui. In fondo il cammino è un ciclico ritorno, deludente da ogni punto di vista nel vedere l’aia vuota, spezzata dall’erba infestante, essa sempre così pulita, nettata d’ogni vegetale per il continuo passaggio d’uomini e trattori e bestie e carretti e stivali di gomma. Su tutti l’acuto sentore di pollame e bestie, odore che si confondeva con l’essenza della limonina, abbondante sui bordi del caseggiato, laddove i mattoni screpolati si tuffavano nelle profondità della terra. E il terrapieno che sapeva di muffa all’interno, con le sue macchie nere e i rigonfiamenti dell’intonaco in quella stanza segreta che era il recesso del grande zio, il capo, il Ritornato.
Lo ricordo bene, così secco, cupo, avvinghiato dall’abbraccio mortale della guerra appena scampata. E corrusco nel movimento della falciatura, lui il conduttore del mezzo che con la sua ruota piegava le spighe recise e formava i covoni che poi si impigliavano nelle ‘cappelle’, benigne costruzioni destinate a riparare il grano posto a seccare sui campi.
Era tutto gioioso corpo quello che si librava nel sudore, sotto il calore del sole di giugno, quando la mietitura compiva il suo corso. E i carri che si dinoccolavano per le pedaggere di terra battuta sui quali si saliva come premio del lavoro.
Non so, non recupero una dimensione mitica in quei meriggi così luminosi e vividi, ché tali apparivano con gli occhi nuovi sì percipienti del bambino, bensì una particolare specie di tristezza affondata nelle lungaggini del tempo così come m’apparivano allora le giornate e le domeniche nella fattispecie, quando appunto s’andava a lavorare nei campi per offrire supporto ai contadini magri di quei campi maledetti, tutti in pendenza, grondanti acque sorgive a chiazze sul terreno.
Ma su tutto emerge lo stupore dei fanali perduti nella notte mattutina, al largo della strada che conduceva alla Vigna – così in famiglia si chiamava la cascina degli zii – formulati dai veicoli che trainavano la gran macchina della trebbiatura.
Era, essa trebbiatura, l’estrema conseguenza della semina ottobrina dei campi piani, quelli più feraci, posti al levante della casa, i migliori produttori frumentari di tutto il possedimento, quelli che ‘trebbiarli era una consolazione’ secondo il detto, perché quando venivano attaccati quei covoni, i sacchi si riempivano a palate e sembrava non ne capissero mai abbastanza.
Così il corteo arrivava nell’aia ancora illuminata dalla sparuta lampada di ceramica bianca attaccata al pilastro del pagliaio. Era Agosto, o forse Settembre, non ricordo bene, ma ancora l’alba, precocissima, inzafferava l’orizzonte mosso dalla sagoma delle colline scure con quel bagliore appena rossastro che ricordava al cosmo, il nostro piccolo cosmo, che il sole stava arrivando.
Ed eccoli quei brividi che sentivo fremermi dentro la schiena che mi tramolavano le vertebre, giù fino al pube. La trebbiatrice arrivava, il meraviglioso intrico di ruote e pulegge e ingranaggi che tanto affascinava noi bambini, con quel mulo scoppiettante ch’era il trattore di traenza, quello cioè dove la cinghia agganciata al volano di ferro trasmetteva la forza rotante al tutto polveroso dei marchingegni.
Le operazioni di sistemazione e montaggio ci facevano rimanere a bocca aperta, e i macchinisti, giovani, invidiati da noi al pari di guerrieri in procinto di sciabolare un nemico, con le camicie aperte, manovravano i cunei per allineare perfettamente le pulegge.
Cadenzavano un ruglio di fatica – io non riuscivo a immaginare che cosa dovesse essere sollevare tanta massa, seppure per poche frazioni di centimetro – “Oh, forsa” – in sintono con il capomacchina che sedeva sul trattore sputacchiante e li osservava con condiscendenza: “Sono giovani” diceva “ma lavorano…”
E poi la colazione, tracimata condiscendenza a corpi levigati dalla fatica che traevano i succhi vitali indispensabili per l’immane fatica da quei cibi meravigliosi, così allettanti impilati nei grevi piatti di portata. Questo primo rito si concludeva con il ‘cicchetto’, alieno a noi bambini che ne elemosinavamo qualche goccia da coloro che conoscevamo e ci bruciava in gola come un fuoco greco nell’azzurrità del mare. A questo punto ogni cosa stimava la sua locazione, ogni persona, come un teatro ben diretto da un misterioso regista, raggiungeva una postazione – la nostra era quella di un volto di macchina dalla cui bocca veniva sputato uno sfrido chiamato in dialetto ‘rsca’, la quale doveva essere imbustata dento un canestro e portata in un mucchio vicino al pagliaio ( non si sprecava nulla e quell’ammasso si spinette serviva per fare letame, ci dicevano) – la tensione cresceva fin quando il capomacchina saliva sul traente, e affondava con evidente, plateale gesto la leva dell’acceleratore fin quasi al fondo. Stordito per il troppo carburante, quel mostro meccanico ruttava un rombo accompagnato da un nuvolotto nero dalla fornace del camino, dipoi si metteva a ruggire così violentemente e a girare così velocemente da farci sbigottire tutti. A questo punto veniva la parte più intrigante, perché con due manopole rotonde collocate sulla ruotona d’acciaio, principiavasi, frizionando, a prendere vita lentamente il movimento rotatore di tutte le cinghie, pulegge, ruote dentate e a raggiera dell’infernale macchina trebbiatrice, mentre dalle sue fauci voraci e dal suo deretano pagliarolo levavasi una colonna di polvere che pareva piuttosto essere alito e peto fiammeggiante di un feroce drago.
E cominciava la festa. Una schiera di lavoranti alimentava la bestia dal pagliaio, mentre tutti gli altri chi insaccava il grano, chi prelevava la balla di paglia spinta fuori dal ruglio ferresco dell’imballatore, chi regolava il flusso di questa o quella parte dei setacci, chi si vantava della propria forza restituendo al pagliaio le balle quadrate con lo scagliarle a forza di tridente su in alto dove altri l’aspettavano per deporla.
Un trionfo di corpi, molti giovani, che si esibivano, celiavano, si rincorrevano con lo sguardo, saggiavano la loro prestanza. Sì, è esattamente così che descriverei la trebbiatura nell’aia della cascina, esibizione di corpi e voracità di sguardi, pagati con una fatica da considerarsi oggi quasi inumana ma molto vitale e in fondo eccitante.
Nulla è rimasto di quel mondo se non il nostro ricordo, sempre più pallido e completamente senza interesse.
È vero: ogni generazione ha i suoi ricordi, e quelli dei bambini odierni saranno, una volta adulti i loro protagonisti, così nostalgicamente emozionanti quasi quanto i nostri, crogiolati dall’assenza, dalla desolazione che inaridisce i cortili, le rimesse vuote e i pagliai senza odore di questa desolazione. Tuttavia chi rimpiangerebbe l’instabilità della vita delle generazioni passate – quelle passate intendo che morivano a partire dall’infanzia in modo molto più comune e poco circostanziato, per non dire rassegnato – o la loro arida povertà, o la crudele difficoltà del ‘tirareacampare’ che le caratterizzavano?
Quando ci penso, ritorno in fretta con un sospiro di sollievo alla nostra condizione di privilegiati nel mondo che si permette di alzarsi all’aurora con una tavola imbandita e mille protesi di tecnica che alleviano fatiche e ansie.
Vago in dolce apnea di realtà attraverso le pietre diroccate, deserte, le erbacce, le reti arrugginite e le imposte cadenti. Sento dietro questo aspetto il loro contenuto gravido di suggestioni mnemoniche che attingono a qualcosa di lontano in me, di remoto, di definitivo.
Come se il tempo si fosse davvero fermato laggiù e tutto quel ch’è avvenuto dopo fosse senza significato. In fondo arrivati al doppiaggio dell’età adulta che cosa di interessante ancora c’è da scoprire? Ovvero c’è ancora qualcosa di interessante che possa far vibrare della sua novità con uno schema non ancora fatto, formato, saggiato dentro la costruzione del mondo che la mente fa medianti i suoi percipiendi? Torna alla coscienza il monito che l’assestamento del mondo è ciò che dà la sicurezza della personalità, ma il dubbio ci assale. A persona formata resta solo l’aggiunta di minute verità che – appunto – assestano il poco costruendo, mentre latita sempre di più la necessità d’emozione che accompagna il primo formarsi d’una qualche conoscenza. Il tempo, in altre parole ci inganna con il suo gioco di ripetizioni e ci fa credere che una volta assunta, una conoscenza è stabile per sempre e che tutto è solo variante di qualcos’altro.
Ce n’è abbastanza per questa mattina.
Ritorno al centro dell’aia: a sinistra il praticello padronale, inselvatichito, ombreggiato dalle piante di grosso fusto che dovevano simulare un parco, al centro il pollaio con le sue reti e i suoi odori, dietro, la casa con la sua divisione in umile e pretenziosamente retrò e infine a destra le rimesse, occhiaie vuote d’uno scheletro da seppellire.
Ritorno al cancelletto di ferro abbarbicato ai rovi e alle ortiche.
Esco e chiudo in se stesso e dentro i miei simuli quel minuscolo mondo attivo solo più nei reticoli neuronali dei suoi protagonisti.