Storie della Fondazione per la Normalizzazione della Terra
«Alvaraes? Dov’è?»
Habelhas lanciò al segretario un’occhiata gelida: «A qualche chilometro dall’aeroporto di Tefé»
«Ne so quanto prima» ribatté Oeyeff, ostile.
Habelhas iniziò a ticchettare le unghie sulla scrivania. Si stava innervosendo: «Brasile. Foresta Amazzonica».
Oeyeff emise un risolino nervoso: «Amazzonia? E che cosa abbiamo noi in Amazzonia? Soprattutto di tanto importante da doverci per forza andare?» domandò.
Habelhas aprì con noncuranza: «Le interesserà, vedrà. C’è anche un meraviglioso albero fatto di biciclette. In fondo bisogna essere aperti agli eventi che la vita ci presenta, no? Fa parte della nostra filosofia» disse Habelhas amabile.
«Albero di biciclette?» chiese Oeyeff sconcertato.
Habelhas guardò compiaciuto il suo segretario: amava sorprendere i suoi interlocutori con ragionamenti spezzati che capiva solo lui.
«Ovviamente se lei vuole andare a vederlo. Soprattutto se avrà tempo. Questa è una missione lampo» rispose Habelhas «Inoltre è bene sapere che la mia non è una richiesta. È piuttosto qualcosa che assomiglia molto a un ordine»
«In tal caso» masticò amaro Oeyeff con un sorrisetto poco convinto «Immagino che ci dovrò andare…»
Habelhas gli sorrise: «Stia tranquillo. Non la voglio allontanare dalla plancia di comando. Anzi. Ha presente il nostro centro di addestramento segreto di Alvaraes…»
Oeyeff si fece subito attento: «Ignoravo che avessimo un centro di addestramento là…»
Habelhas sorrise nuovamente: «È ovvio che lo ignorasse. Altrimenti non sarebbe stato segreto, non le pare? Ma ho la sensazione che quel posto possa essere interessante per noi. Per quel che stiamo preparando. M’intende?»
Oeyeff, tranquillizzato annuì: «Dunque?» chiese.
«Mi piacerebbe sondare con discrezione il capitano Kupahuba che lo dirige»
«Kupahuba non era quell’indigeno…» domandò Oeyeff cercando di ricordare qualcosa a proposito di quel nome.
«Un Koroubos. Uno dei pochi occidentalizzati» fece freddamente Habelhas «Gli abbiamo pagato la scuola in Inghilterra»
«Ha lavorato per noi?» s’informò Oeyeff.
Habelhas attese qualche istante prima di rispondere: «In un certo senso»
«Adesso ricordo. È quello che ha guidato la rivolta degli Indios» Oeyeff cercava di prendere tempo per capire che cosa Habelhas avesse in mente.
Questi sorrise: «Un esperimento mal riuscito di contenimento. È da allora che abbiamo deciso di non usare più la violenza»
Oeyeff fece una smorfia: non usare più la violenza? I piani della Fondazione erano violenza allo stato puro.
Habelhas, come se gli leggesse nel pensiero assunse un tono appena risentito: «Intendo la violenza di massa utilizzata per i nostri scopi. Per il resto» e sospirò «non esistono molte alternative per ottenere gli obiettivi che ci prefiggiamo, e cioè la salvezza dell’umanità»
Si alzò dalla scrivania e andò verso uno scaffale stracolmo di libri, fino al soffitto. Poi si voltò improvvisamente: «Usare la ragione per fare i conti. Non va dimenticato che l’umanità si sta autodistruggendo»
Oeyeff si sedette su una poltroncina accostata a un piccolo tavolo per riunioni: «Non ho messo e non metterò mai in discussione i principi generali. Che cosa devo fare ad Alvaraes?»
Habelhas raggiunse la sua scrivania: «Sto ragionando sul modo di far iniziare la faccenda. E vorrei anche prendermi una piccola rivincita sui proprietari terrieri che hanno fatto fallire la rivolta. Se avesse funzionato tutto come era stato programmato adesso forse non saremmo arrivati a questo punto»
Oeyeff guardò il suo capo dubbioso: «Volete far cominciare tutto in Brasile?» chiese.
Habelhas chiuse gli occhi congiungendo le mani davanti al suo naso: «Se ci fosse una specie di guerra civile nella foresta… e se cominciassimo a diffondere le notizie di un’arma batteriologica messa a punto dai fazenderos per sterminare gli indigeni… il controllo potrebbe sfuggirgli di mano. Che cosa le sembra come idea?»
Oeyeff studiò attentamente le implicazioni di quel che aveva appena sentito: «Potrebbe funzionare. In Brasile i poveri sono tanti…» disse infine.
Habelhas si rilassò sulla poltrona: «In realtà non ho ancora deciso. Però sarebbe interessante sentire che cosa ha da dire il capitano Kupahuba. Credo che stia covando la vendetta da quel lontano giorno»
«Potremmo passargli dei fondi tanto per iniziare» azzardò Oeyeff.
«Lo finanzieremo completamente noi. Solito modo, senza apparire» confermò Habelhas.
«E una fantastica campagna stampa preventiva»
Habelhas fece un gesto di diniego: «No, sarebbe troppo poco credibile. Cominceremo in sordina. Voci che si rincorrono sulle reti. Sospetti. Con il capitano Kupahuba fingeremo di aver ricevuto qualche soffiata da qualche servizio segreto. Penserà lui a far gonfiare queste voci»
Oeyeff lanciò uno sguardo all’armadietto dei liquori. Poi si alzò: «Quando devo partire?»
Habelhas assunse nuovamente il solito tono freddo: «Ho bisogno di qualche giorno. Non voglio mettere in moto cose che poi fatichiamo a controllare. Volevo solo un suo assenso preventivo» disse sorridendo sinistramente al suo segretario.
Questi non poté fare a meno di accennare appena un inchino, quindi uscì dall’ufficio.
“Umidità” pensò Oeyeff appena affacciatosi alla scaletta del jet privato atterrato ad Alvaraes. Colpito da quel senso di soffocamento umido che inzuppava come una sincope ogni centimetro cubo intorno al corpo di un essere vivente. Oeyeff conosceva bene l’umidità: nei tempi gloriosi del suo servizio mercenario, era stato nei posti più maledetti da Dio della terra. Come lampi gli vennero in mente ricordi seppelliti dal tempo, corse in mezzo alle Sonderbounds indiane gravato da pesi quasi intrasportabili, sciabolate di proiettili che tritavano le foglie e i rami. Cercò di riscuotersi mentre tentava un primo respiro acquoso, il liquido sospeso nell’aria che fluiva fino al diaframma per riempire i polmoni e fargli fare la fine del sorcio annegato.
«Si abituerà in fretta» gli disse il capitano Kupahuba che lo attendeva in fondo alla scaletta, per tutto saluto.
Oeyeff lo guardò storto: «Sono abituato. Ho combattuto in posti ben peggiori»
Il capitano Kupahuba lo guardò sorpreso: «Lei è un soldato?» chiese.
«Lo sono stato» rispose asciutto Oeyeff.
Il fisico di Kupahuba sorprese Oeyeff. In genere gli indigeni erano tutti bassi e tarchiati. Questo invece era un omone possente, alto, dall’espressione feroce. Si muoveva come un ghepardo ma la sua capacità di stritolare la preda la si intuiva dagli enormi bicipiti che strabordavano dalla camicia militare che indossava.
«L’accompagno nella caserma del nostro corpo. Ovviamente visto il suo ruolo… non la benderò come facciamo di solito…» disse esitante il capitano.
Oeyeff gli lanciò un’occhiataccia: «Vorrei ben vedere» disse stringendo i denti. Salirono su una jeep tirata a lustro ed entrarono in breve nella foresta.
«Come vanno le cose qui?» chiese Oeyeff tra un sobbalzo e l’altro. La pista era appena accennata tra gli alberi e gli scossoni del mezzo tremendi.
«Immobili. Aspettiamo» disse cupo il capitano.
«Che cosa aspettate?» chiese oeyeff, disorientato.
«Di venire sterminati senza sparare un solo colpo»
Oeyeff rimase impassibile.
«I fazenderos sono implacabili. Divorano chilometri e chilometri di foresta. Scortati da un vero esercito armato. Che cosa possiamo fare noi?» disse Kupahuba. L’odio che si intuiva dietro le sue parole era illimitato, senza confini, «Solo grazie alla vostra copertura noi possiamo rimanere qui» concluse Kupahuba, rassegnato.
Oeyeff assentì, indifferente.
La jeep avanzava nella foresta lentamente, impantanandosi di tanto in tanto. In quel caso due ragazzi scendevano, sempre con il mitra a tracolla, legavano la fune del verricello di traino a un albero e tiravano fuori il veicolo dal fango. Kupahuba smozzicava ordini in un maledetto dialetto incomprensibile. Oeyeff era inquieto. Aveva armamenti di difesa personale tali da non doversi trovare troppo in pericolo, considerando anche i suoi trascorsi, ma tutta quella vegetazione, la solitudine della pista e la larvata ostilità di quegli indigeni che lo accompagnavano sul veicolo gli trasmettevano un sottile senso di disagio che non riusciva a reprimere del tutto.
Finalmente, perfettamente nascosto da una fittissima cortina di alberi, giunsero al centro di addestramento.
«È venuto a controllare che cosa facciamo qui?» chiese ironico Kupahuba mentre lo invitava a scendere dopo che il pesante veicolo si era fermato in un cortile che assomigliava moltissimo allo spiazzo di un villaggio indio. Le costruzioni di cemento armato erano mimetizzate da piante altissime e rampicanti assai fitti che parevano voler inghiottire ogni traccia umana.
Prospiciente sulla piazza, una casermetta ricoperta di canne costituiva l’ufficio di comando. Sul tetto, un’antenna parabolica. Kupahuba invitò Oeyeff ad entrare.
Mentre percorrevano il breve tratto che portava all’ingresso, qualche indigeno nudo sostava pigramente sotto ciuffi di arbusti.
Oeyeff lanciò uno sguardo perplesso a Kupahuba che sorrise.
«Quello che vede lì è il più efficiente e spietato guerriero della nostra forza diciamo… speciale. Le piace come copertura? I fazenderos con i loro maledetti elicotteri possono ronzare qui quanto vogliono ma non riusciranno mai a vedere alcunché di interessante. Un gruppo di capanne abitate da indigeni»
«E le forze che addestrate?» chiese Oeyeff entrando nella casermetta. Dentro l’aspetto era assai più simile a un ufficio militare come quelli che lui era abituato a conoscere. D’un tratto fu attratto da un lettore di cd posato su uno scaffale, accanto al quale stava una montagna di dischi.
«Musica classica? Occidentale? Handel, Vivaldi… davvero non mi aspettavo di trovare musica barocca in mezzo alla foresta» disse Oeyeff, esaminando la colonna di custodie.
Kupahuba sorrise sinistramente: «La solita superiorità di retaggio degli uomini occidentali che ritengono le popolazioni di questi luoghi dei selvaggi. Io…»
«Lo so, lei ha studiato in Inghilterra. L’abbiamo pagata noi la sua formazione militare» disse Oeyeff sprezzante.
Kupahuba arrossì visibilmente, mentre una contrazione della mano gliela portò istintivamente alla fondina della pistola. Poi tornò a sorridere: «La passione per la musica barocca è nata proprio a Sandhurst. Durante l’Accademia» disse conciliante.
«Dev’essere una meraviglia ascoltare Handel mentre si taglia la gola a qualche ricco fazendero» provocò Oeyeff.
Kupahuba smise di sorridere e rimase in silenzio.
Oeyeff stette qualche istante a guardare il suo anfitrione, poi, soddisfatto, fece: «Non sono venuto per un’ispezione. Stiamo progettando una cosa delicata e potremmo aver bisogno di voi. Di questo centro segreto»
«Mister Habelhas?» chiese il capitano.
«Ovviamente, lui» rispose asciutto Oeyeff.
«Immagino che non si possa dire di no» commentò Kupahuba.
«Immagino di no»
«E che cosa dovremmo fare?» s’informò Kupahuba.
Oeyeff prese tempo.
«Quali sono i vostri rapporti con i fazenderos?» s’informò il segretario.
Kupahuba alzò le spalle, simulando indifferenza: «Come al solito. Pessimi»
Oeyeff annuì.
Attese qualche istante: «Mister Habelhas vorrebbe avere qualche informazione sulla questione, nonché raccogliere un vostro parere a proposito di un certo progetto»
Kupahuba sorrise. Andò verso un frigorifero scalcinato, lo aprì e prese due lattine di birra: «Abbiamo solo questa, qui. Vi andrebbe di berne una fresca?» propose.
Oeyeff fu quasi sul punto di accettare, ma le regole non glielo consentivano e quindi fece cenno di no con il capo.
«La questione dev’essere ben delicata se ha mandato il numero due in persona» disse, non senza ironia Kupahuba.
Oeyeff cominciò a irritarsi, ma si costrinse a stare calmo.
«È una questione abbastanza importante che si intreccia con altre questioni meno fondamentali ma utili ai fini di una nostra vittoria» disse, fingendo di esitare.
Kupahuba in fondo era un uomo di azione che cominciava a pentirsi di essersi lasciato convincere a comandare quel centro di addestramento segreto. L’idea che il posto potesse diventare un punto importante per qualche cosa di grosso, gli solleticava le viscere.
Oeyeff riprese, sedendosi su una vecchia scalcinata sedia: «Ripeto la domanda: come va con i fazenderos?»
«Come al solito. Ammazzano, distruggono e abbattono alberi. Senza alcuna coscienza o rispetto»
«E gli indigeni?»
Kupahuba lo guardò storto: «Indigeni? Vuol dire le popolazioni che hanno il diritto a vivere della foresta? Sopportano ma sono irritati. E sempre più nervosi. Cerchiamo di coltivare questo malcontento…»
Oeyeff annuì.
«Ultimo incidente?» chiese.
«Hanno invaso il territorio di una tribù isolata. C’era opale là dentro. Per fortuna l’abbiamo saputo per tempo e ci siamo preparati. Hanno trovato pane per i loro denti» smozzicò soddisfatto il capitano.
«Gliele avete date?» s’informò Oeyeff.
«Ne abbiamo prese tante ma gliene abbiamo anche date parecchie» disse Kupahuba con tronfia soddisfazione.
«Quanti anni avete capitano?» chiese Oeyeff.
Kupahuba lo guardò meravigliato: «Cinquantadue. Ma che cosa c’entra?»
Oeyeff sorrise sinistramente: «Voi e i vostri guerrieri sareste disposti a un attacco a sorpresa contro qualcuna delle città che vi separano da Manaus?»
«Attacco? E perché?» disse con un’espressione indecifrabile.
«Azione diversiva. Grande copertura mediatica. Un segno della ribellione degli indios. Potremmo riprendere la partita dal punto nel quale l’abbiamo lasciata la volta scorsa. Ma questa volta la vinceremo» rispose Oeyeff freddamente.
Kupahuba lo guardò con occhi brillanti: «Dunque il momento sarebbe venuto?» chiese.
Oeyeff allargò le mani: «La situazione si sta rapidamente deteriorando. Non ci vuole granché per capire che siamo a un punto di non ritorno che dobbiamo evitare di superare. Cpon le buone e con le cattive. Vorremmo ripartire di qui»
«Voglio garanzie. Una grande copertura di media. Se lo facciamo, molti moriranno. I fazenderos non sono da sottovalutare»
Oeyeff lo squadrò negli occhi: «Vogliamo la rivolta più grande e importante della storia del Brasile. Gireranno le voci che la gente sta cominciando a ribellarsi. Abbiamo segnalazioni dei servizi segreti della polizia brasiliana. Qualche infiltrato. Hanno paura. Paura che tutto ricominci. Hanno in mente un’azione dimostrativa. Non dobbiamo lasciargliela fare. Sarà rischioso, ma se riusciamo a realizzare bene quel che va fatto, sarà il primo cambiamento epocale nei rapporti di forza tra le etnie in questo paese»
Gli occhi di Kupahuba brillavano.
«Voglio garanzie, ripeto»
«Fate un elenco»
«Ci devo pensare» ribatté Kupahuba.
«Avete tempo fino a domani mattina per pensarci. Domani riparto» fece Oeyeff.
Kupahuba annuì: «E posso chiedere…»
«Ciò di cui avete bisogno. Sarà una faccenda grossa»
Kupoahuba era pensieroso: «Non sono convinto. Voi avete in mente qualcosa, ma io non voglio finire in mezzo agli ingranaggi di un meccanismo che voi avete chiaro ma noi no. Di solito in questi casi si finisce stritolati»
Oeyeff annuì: «In realtà non avete molte alternative. È un’offerta assai generosa»
«Se rifiutassimo finirebbe tutto molto male vero? Conosco i metodi di mister Habelhas» fece Kupahuba, cauto.
Oeyef rise: «Siete un segugio. Il mio mandato in realtà ora è molto limitato. È diciamo un mandato espolorativo. Per capire se la cosa potrebbe interessarvi. In caso affermativo ci sarebbero ovviamente contatti di progettazione nei quali si sviscereranno tutti gli aspetti della questione»
«Se voi evitate di esporvi, la faccenda deve essere davvero grossa. E ho poco tempo per pensarci. Il punto è che non voglio rimanere fregato» disse Kupahuba.
«Lo siete comunque» sussurrò Oeyeff ridendo.
«In che senso?» chiese quello adirandosi.
«Se non accettate è facile che questo centro sia smantellato. Come potete ben immaginare»
Kuypahuba annuì lentamente, con gli occhi a fessura. Poi si riprese.
«Domattina le farò sapere» disse «Vuole cenare con me?» chiese poi.
«Cibo indio?» domandò neutro Oeyeff.
Kupahuba sorrise: «Ovviamente. Siamo in Amazzonia. Il più grande scrigno alimentare del mondo»
«Ovviamente» sospirò Oeyeff.
«Patarascha e Juane. Quel che offre la nostra cucina» disse il capitano Kupahuba portando in tavola due ciotole di terracotta.
Oeyeff annusò il pesce condito con il sachaculantro e fece una smorfia.
«Il sachaculantro è quanto di più prelibato esista. Può gustarlo solo qui»
«Ne sono convinto» replicò Oeyeff poco convinto. Ingollò il pesce e lo accompagnò con una cucchiaiata di riso, per stemperarne il sapore.
«Quanti uomini ci sono qui?» chiese dopo aver ingollato a fatica il pesce.
«Non li teniamo mai tutti insieme uniti. Sono quattrocentosettantadue. La gran parte è impegnata nella foresta in missioni ‘speciali’» rispose Kupahuba «Il segreto sta nel non dare nell’occhio. Non dimentichi che questo è un villaggio di nativi» disse Kupahuba.
«Ci credono ancora?» domandò Oeyeff.
Kupahuba strinse le spalle: «Non ci hanno ancora distrutti. Quindi suppongo di sì»
Oeyeff terminò il riso. Era buono, aromatico, leggermente nauseante, con un sapore greve, quasi come i profumi della foresta.
«Che cosa si può sapere di questa… svolta, decisa da Mister Habelhas?» chiese Kupahuba. Si era tenuto quella domanda per tutto il pomeriggio, ora era arrivato il momento di porla.
Oeyeff lo guardò con un sorrisetto storto: «Quale svolta?» chiese.
Kupahuba frenò un gesto di impazienza: «Siamo quasi marciti in questo dannato posto per quattro anni. Abbiamo fatto cose miserrime, qualche attentato qua e là invece di affrontare i fazenderos. Io l’ho detto mille volte a mister Habelhas: un solo gesto e molti guerrieri potrebbero convenire segretamente qui per fare un esercito assolutamente temibile da quella congrega di bastardi. E invece niente. L’ordine è sempre stato di rimanere coperti. E adesso…»
Oeyeff lo guardò divertito e ricordò lo stesso impeto in epoche passate. Ma lui allora non aveva cinquantadue anni. Ne aveva venticinque. E sentiva di poter cambiare il mondo. Poi le cose erano mutate. Habelhas gli aveva insegnato molte cose. E lui era stato un allievo quasi perfetto. Mentre le persone venivano e se ne andavano attorno ad Habelhas, lui era rimasto, tenacemente avvinghiato al potere. Aveva fatto carriera. Era rimasto stupito del fatto che Kupahuba lo avesse chiamato il numero due. E si era detto che la fedeltà alla fine ripaga sempre.
«Non si può definire una svolta. Si può definire l’arrivo del momento giusto che Habelhas aspettava da quattro anni»
Kupahuba scosse il capo: «Neanche un giocatori di scacchi – o uno stratega, faccia lei – come Mister Habelhas può tenere la barra dritta dei suoi progetti per un tempo così lungo. Almeno come lo vediamo noi, dal nostro punto di vista. In quattro anni un pezzo di Amazzonia grande quanto il regno Unito può essere messo a ferro e fuoco. È un tempo troppo lungo»
Oeyeff lo lasciò parlare: «Il vostro, capitano, è un osservatorio molto limitato. I fenomeni su scala mondiale sono molto più lunghi e lenti. E non si può fare sempre quel che si vuole»
«Ma adesso il momento è giunto. Mi chiedo se sia giunto per voi o per noi. O se voi riteniate che sia giunto per noi…» disse non senza una velatura d’ironia Kupahuba.
«Mettetela come volete. Quel che vi posso dire – perché non so altro – è che, se voi lo ritenete appropriato potrebbe essere possibile passare finalmente (dal vostro punto di vista) all’azione»
Kupahuba assentì: «Ne abbiamo bisogno. Ne ho bisogno. La foresta inghiotte la volontà di riscatto e di rivincita. Anche la volontà di vendetta si stempera in questa magnificenza vegetale e si è portati a chiedersi se valga davvero la pena di combattere…» fece Kupahuba, quasi parlando a se stesso.
«Questo dipende da voi. Quanto è grande la vostra sete di vendetta?» lo provocò Oeyeff.
«Mai esausta» replicò duro Kupahuba. «I fazenderos hanno sterminato la mia famiglia. Pur sapendo, anzi forse proprio sapendo che io ero in Europa. In questo senso sono diventato il loro vero nemico»
Oeyeff scosse il capo: «La vendetta a cui mi riferisco è quella del vostro popolo. O meglio dei vostri popoli. Non cadete nella trappola della vendetta personale. In guerra non funziona» lo ammonì Oeyeff.
«Fate presto a parlare voi» rispose aspro il capitano «Non avete avuto la famiglia sterminata nel fuoco» disse cupo.
«Ho visto cose orribili durante la mia vita di combattente. È per questo che mi sono reso conto che accanto alla lotta del soldato ci vuole quella del burocrate».
Kupahuba espresse una smorfia di disgusto: «Questo andrà bene per voi. Non per me»
Oeyeff sospirò: «Dunque posso riferire che siete disposto a comandare questa rivolta che ci sarà?»
Kupahuba sorrise sinistramente: «SE ci sarà, io la comanderò»
«Dipenderà da voi»
«Non solo» replicò Kupahuba «dipenderà anche dai vostri soldi».
«Quelli ci saranno» affermò netto Oeyeff.
«Speriamo. Finora non se ne sono visti molti» ribatté Kupahuba sprezzante.
«Questa volta ce ne saranno. Parecchi» Oeyeff si alzò dal tavolo e andò verso uno sgabello che aveva le fattezze di una poltrona senza averne le comodità e vi si sedette sopra.
Intanto Kupahuba prese una specie di caffettiera di terracotta dal focolare.
«Riferirò che siete a disposizione» concluse infine il segretario.
Il capitano Kupahuba, impegnato a preparare un infuso di erbe con l’acqua calda della caffettiera non disse nulla. Quando la bevanda fu pronta porse la tazza al segretario.
Il quale la prese e l’annusò a fondo. Poi storse il naso: «Devo berla? Tutta?» chiese.
Kupahuba sorrise, maligno: «Pensavo che un intellettuale della vostra portata non avrebbe retto il ritmo di lavoro della foresta»
Oeyeff rimase serio: «La foresta non è un lavoro» replicò gelido.
Kupahuba si avvicinò al suo orecchio: «Avete ragione. È piuttosto un essere vitale, molto instabile. Un momento è amica, il momento successivo può diventare la propria personale nemica. È allora che non ti parla più.»
Oeyeff si ritrasse da quello spazio condiviso e scosse il capo: «Io non ho mai sentito parlare una foresta» disse, agitato.
«Davvero? Io invece penso di sì. Ma forse non avete saputo ascoltare» disse divertito.
Oeyeff si sentì a disagio. Cercò di recuperare la sua dignità intellettuale. Ma tutto era a posto e lui in quel momento non aveva bisogno di pensieri cattivi. Né di dubbi.
«Riferirò che avete accettato»
«Non ho ancora detto un sì formale» protestò Kupahuba.
Oeyeff si mise davanti alla sua faccia e sospirò: «Capitano state giocando una partita incerta – per voi. Noi abbiamo bisogno di persone fedeli. Solo così si va avanti»
«Ma voi chi siete? Voglio dire chi siete davvero?» domandò Kupahuba.
«Riferirò che avete accettato» chiuse la discussione Oeyeff e cominciò a ritirare metodicamente ogni oggetto di fattura occidentale che c’era su quella scrivania.