Ero ancora ragazzo, mi sembra. L’anno preciso non lo ricordo. Ma il balcone, quello su cui ero uscito per vedere il temporale, lo rammento pulitamente.
Era il vecchio condominio al centro del paese. Scrostato, di un vago colore grigio, con l’intonaco pieno di colature nere.
Chissà da dove venivano… da qualche falla sul tetto, una gronda bucata, un coppo sbilenco sporto pericolosamente all’infuori. La concrezione nera si intanava dentro la struttura molecolare di quella copertura e segnava sempre più in profondità il suo sentore di sporco, di acido. Probabilmente un giorno quelle colature sarebbero entrate dentro i muri e sarebbero permeate nelle stanze. Un bel guaio da risolvere. L’acqua va dove vuole, diceva mio padre, è inutile cercare i suoi sentieri.
Dicevo di quella sera. Tanti e tanti anni fa. Una pentola di cielo, chiusa, pressata da cumuli di vapore nero inchiostro illuminate all’interno da guizzi spaventevoli.
Ero veramente impressionato. Non perché ero in alto: al quarto o quinto piano mi sembra… e neanche perché il poggiuolo si apriva sul vuoto della valletta che terminava proprio con un cortiletto, dove posteggiavano le macchine tutti i condomini . Non non era per questo.
Era perché in prospettiva io ero sullo stesso piano delle nuvole. Tutto si giocava sulla pianura lontana ma io ero in collina. E avevo paura che qualche fulmine orizzontale arrivasse dritto a schiantarmi sul ballatoio dove stavo. Non c’è niente di pericoloso come i fulmini orizzontali. Parola. Ho sentito storie terribili di persone carbonizzate in due nanosecondi da un fulmine orizzontale. Tutti credono che i fulmini vadano dall’alto verso il basso, ma non è vero. Almeno non è sempre vero. Esiste una percentuale di fulmini che invece si scaglia sul bersaglio orizzontalmente e per questo scaricano una potenza distruttiva assai maggiore tutt’intorno. Roba da non trovarsi lì in mezzo.
Adesso provate a immaginare: io che sono lì appoggiato alla ringhiera e un cumulo temporalesco alla mia stessa altezza. D’un tratto parte una saetta ed ecco il Lillo (che sarei sempre io) vaporizzato dalla faccia della terra. Mi viene ancora adesso un brivido, e mi domando con quale coraggio avevo affrontato questa possibilità.
A parte questi pensieri, quella sera è stato incredibile. Fulmini orizzontali non ne sono partiti ma quella nuvola era un vero maglio fulminesco: ne ho contati almeno trenta nello spazio di dieci o quindici minuti. Una cifra notevole, non vi pare?
E come diventava tutto livido dopo. Certo sono stato un po’ ingenuo a salire lì sopra senza neanche un paio di occhiali da sole. Non è che gli occhiali da sole riparino dai fulmini, ma almeno puoi guardarli senza avere sempre paura che ti accechino. Perché se tu riesci a cogliere l’attimo preciso in cui scoccano, hai la sensazione che la luce ti entri direttamente dentro il cervello. Generalmente io sono molto veloce nell’individuarli: è quasi come avere la sensazione di sapere già dove cascano e di puntare l’occhio nel posto giusto e tenercelo per un lasso di tempo. Tutto questo è emozionante se si unisce anche la zaffata di aria quasi acida che ti investe dopo che ne è partito uno vicino.
Dico tutto questo perché voglio far capire che non sono i fulmini che spaventano adesso. Cioè in questo preciso momento.
Se dovessi dire che cosa temo di più in questa notte incipiente, direi il freddo.
Io ho sempre avuto paura… paura del freddo. Da quando ero un essere minuscolo che ciabattava il primo di Novembre nei boschi gelati per andare a prendere il muschio.
Il muschio serviva per fare il presepio e io lo dovevo fare sempre il primo di Novembre. Era una specie di tradizione. E andavo sempre a raccogliere il muschio nei boschi del Ronco, quasi in cima a Colle Ventoso. Era bello perché stavo male. Sembra strano ma era proprio così. I piedi erano sempre gelati, ma non gelati come adesso. Erano proprio un pezzo di ghiaccio. Una volta ho quasi avuto la sensazione che fossero assiderati, proprio come adesso. È stato sgradevole. Non riuscivo più a muovere… a muovere le dita negli stivali. Sì, erano stivali di gomma. Erano lucidi… neri… neri…
Adesso ho gli scarponi, quelli da ghiacciaio, ma è lo stesso. Non riesco a muovere il pollice e non perché lo scarpone è troppo stretto. O perché mi sono fatto male, strisciando sulla pietraia. È il freddo . Per questo ho sempre avuto paura… paura… paura del freddo. Perché ti prende poco per volta e ti mangia il cuore.
Ma la cosa più spaventosa è che tu sei contento.
Quella volta del muschio… sì quella volta…. che cosa stavo dicendo? Sì, quella volta del muschio – sbadiglio – che a un certo punto nel ritano dove c’era il muschio più bello…. più bello di tutta… di tutto il sentiero… no del bosco avevo così freddo che volevo mettermi a dormire… proprio come adesso… e lui, mio padre, rideva e rideva. Diceva che ero proprio un imbecille, che non bisogna mai addormentarsi in un bosco perché era pericoloso.
Io gli chiedevo: «E perché?»
E lui mi rispondeva… mi rispondeva…
Non mi ricordo che cosa mi rispondeva. Strano… forse sono un po’ stanco per ricordarmelo e poi mi sento torpido, un po’ troppo per sforzarmi…
Anche qui su questa stupida montagna ci sono i fulmini questa sera, e il freddo… e tira anche un vento dell’accidente. Per fortuna ho la mia giacca a vento termica. Io non avevo una giacca a vento quando andavo nel bosco. Non ce l’avevo.
Per questo mi addormentavo.
No, volevo addormentarmi.
Ma non ci riuscivo perché… perchè c’era mio padre a tenermi sveglio e lui aveva la sua zappa che usava a togliere le patate e separava il muschio dal… non mi ricordo…. dal tronco… o dalla pietra e non importava se… la terra… era gelata, sotto… certe volte c’era il ghiaccio.
Devo stare attento alle croste di ghiaccio. Con questa tormenta la neve diventa ghiaccio assai brevemente… e anche il sangue, si ghiaccia nelle vene e si rischia di non sentire…. di non sentire più le gambe o le braccia… o le dita…
Ma qui non c’è papà… a scaldartele…
È troppo scuro… non riuscirà a trovare il sentiero.
E come farà se è già morto… quando è morto? Mi pare dieci anni fa…
C’è solo il buio.
E questo freddo.
E i ricordi.
Che si addormentano.
Ancora.
Una volta…
Così fredda è la fine…
Ci sono
i turbini
di questa
stupida tormenta…
Chissà
forse domani
c’è ancora
il sole,
o forse non più…