L’apecar del Triga frenò bruscamente sull’acciottolato, schizzando sassolini dappertutto. Il guidatore uscì da quel tristo abitacolo e cominciò a guardare su, verso lo sperone del Lallo, grattandosi vistosamente la testa. Quella macchia bianca che si intravvedeva alla fine della linea degli alberi… che cos’era?
Il Triga cercò di mettere a fuoco l’immagine stringendo gli occhi. Ipermetrope e anche presbite a dirla tutta, da qualche tempo, con l’andar dell’età abbisognava di qualche istante in più per mettere in chiaro ciò che vedeva.
Poteva anche darsi che quello sbaffo chiaro nel verde fosse effetto d’un qualche appannamento, che so… una decaduta improvvisa dell’acume visivo, una di quelle paturnie che fanno veder tutto sfocato come se ti si fosse guastata la regolazione degli occhi… uno non se n’accorge e si ritrova cieco in un batter d’occhio. Sbattendo i denti per quel brutto pensiero il Triga si affrettò a tirar fuori un pajo d’occhiali da un sacchetto bisunto appeso al motorino interno del parabrezza. Li inforcò e rivolse nuovamente la sua attenzione al picco del Lallo. Adesso tutto era più chiaro, anche la macchia bianca che campeggiava in quella che sembrava una radura.
«Che cosa potrà mai essere?» si chiese nuovamente il Triga e si grattò la testa per la seconda volta. Lì non c’era mai stato niente, ne era sicuro.
Guardò l’orologio e vide che le lancette segnavano le nove e tre quarti.
«Sono più che in tempo per andare dallo Spineggiu.» si disse e poiché lo Spineggiu era – come tutti sapevano – un terribile rompicoglioni marino, trapiantato lì sui monti da lustri, decise che poteva impiegare un poco di tempo per distrarsi e recarsi a vedere quella stranezza lassù.
Cosi, acceso il motore ronzante del suo apecar, imboccò la stradina che si inerpicava verso il Lallo e che si tuffava nella più fitta foresta di pini mai conservata sulla montagna a memoria d’uomo.
«In mezz’oretta arrivo, guardo cos’è e faccio ancora in tempo, prima di mezzogiorno a riparare il tetto dello Spineggiu».
A mano a mano che saliva per il sentiero, l’apecar sbuffava ed emanava un odore di bruciaticcio sempre più acuto.
Qualunque dotato di saggezza di mente avrebbe desistito dopo due tornanti. La stradina pencolava abbarbicata alla montagna: nei tratti dritti era annegata in un mare d’alberi, poi fuoriesciva con curvoni a picco su un orrido profondissimo e si rituffava nel verde.
Il Triga però, che di saggezza n’aveva punto, più saliva e più apriva a manetta l’acceleratore per permettere allo sgangherato treppiede ambulante d’affrontare quell’erta. Finché con uno scoppiettio, un tossìo e un singulto soffocato al benzene, quello non s’arrestò con una nuvola di fumo che usciva da sotto le ruote.
«Sta a vedere che l’ho bruciato, il motore, questa volta» disse. Poi si voltò di qua e di là: si trovava nel mezzo di una salita dritta immersa tra i pini ch’era sì buia da parere quasi al tramonto mentre ch’era mattina inoltrata. Incerto sul da farsi camminò sino al prossimo tornante e sbucò su una vista mozzafiato che permetteva anche lo scrutamento dell’incriminata radura. E da lì, ch’era assai più vicino, constatò che la macchia bianca assumeva il contorno d’una costruzione, anzi d’un edificio dalla foggia assai particolare per il luogo ov’era posto.
Il Triga strabuzzò gli occhi: «O che è questo?» si domandò. Così di lontano quella fabbrica sembrava imponente e dotata d’un colonnato che la rendeva maestosa e agguerrita. Il Triga si grattò nuovamente furiosamente la testa ché adesso era sicuro al cento per cento che lì non solo non v’era mai stato alcun palazzo, ma men che meno neanche un colonnato. La curiosità prese a divorarlo: chi era che aveva deciso la costruzione di un simile mole in cima a una montagna? Come avea fatto a portarla a compimento in sì breve tempo che lui, il Triga, mastro muratore e carpentiere non ne era venuto neppure a conoscenza? E soprattutto a che serviva un simile complesso lassù, isolato da tutto con neanche una stradetta che vi si portava appresso?
Guardò novamente l’orologio e vide che ormai, con l’apecar fuori uso non avrebbe più potuto comparire dallo Spineggiu all’ora stabilita. Persa per persa la mattinata, si apprestò a compire con le gambe quel che il motore non era più in grado di affrontare e così prese a salire a piedi, tagliando di quando in quando per sentierini noti a lui solo che si inerpicavano d’in mezzo ai boschi.
«Son fortunato» pensava intanto «che l’apecar si sia fermata proprio presso la curva panoramica.» perché ora, nell’ultimo tratto del tratturo il bosco era sì fitto che non permetteva alcuna veduta su alcun paesaggio.
A dire il vero l’atmosfera che regnava lassù era piuttosto inquietante se egli sentì il bisogno di iniziare a fischiettare per rompere un silenzio greve che, insolitamente, s’era insinuato nel bosco.
«Strano» pensò «Di solito qui è tutto un trillare d’uccelli e un soffiare di vento»
Invece quella mattina tutto era silenzioso e greve come un cimitero. E più si avvicinava all’Alpe del Lallo più s’aveva l’impressione che una cappa opprimesse la selva. I rami parevano più contorti, il verde degli aghi più grigio, il buio tra gli interstizi dei rami più oscuro.
Il Triga cominciò a rallentare, inquieto: non si sentiva troppo a suo agio e la curiosità ora stava cedendo il posto allo sgomento. E dire che lui di foreste se n’intendeva ché da sempre ne era un passionato scorridore, fin dalla sua più tenera infanzia.
Cominciò a voltarsi or qua or là fin quando decise di fermarsi e di tornare indietro.
«In fondo» pensò «Potrei farmi prestare il binocolo oggi pomeriggio dallo Spineggiu. Farò finta di nulla, glielo chiederò e poi quando sarò sul tetto cercherò di capire che cosa è successo quassù…»
Fece per fare dietro front quando un chiaro suono di corno gli gelò il sangue.
A quello ne rispose un altro lontano e uno ancor più vicino, quasi dietro di lui. Il Triga cominciò ad agitarsi e stava per scappare a gambe levate quando dal fondo del sentiero, a traverso d’una nebbiolina levatasi repente, vide due individui avanzare.
Dapprima il suo stato d’ipermetrope e presbite gli impedì di rilevare con attenzione chi fossero ma il suo cuore ebbe un tuffo quando si accorse che erano guerrieri, vestiti con elmo, lancia, spada e scudo e tutto il resto. Quando lo videro si diressero verso di lui a gran velocità. In realtà pareva quasi che fluttuassero tanto erano lesti e in men che non si dica si trovò attorniato dai due energumeni che, a distanza ravvicinata parevano però ben pasciuti e in carne e niente affatto della risma dei fantasmi.
Uno di loro si rivolse al povero Triga in un idioma gutturale ch’egli riconobbe per germanico, ma velato d’antichità.
Ora il Triga conosceva a menadito il tedesco – e chi non lo conosce in quelle contrade? – ma faticò a capire il senso di quel che il guerriero volesse dirgli. Gli venne in mente che potessero essere valligiani in costume per una qualche prova di una qualche sceneggiata ordita per il contentìo dei turisti, ma a guardar bene le armi parevano vere, assai affilate e lustre d’uso.
Egli accennò a disimpegnarsi accusando di dover proprio andare ché l’ora era tarda, ma l’altro guerriero, contrariato: «Nein» disse risoluto e gli sbarrò il passo precludendogli la via della fuga. Peraltro essi parevano cortesi, e pian piano il Triga capì che volevano che li seguisse. Costretto dalla situazione, egli alfine acconsentì e lo strano drappello formato da un guerriero, il Triga e l’altro guerriero si apprestò a percorrere l’ultimo tratto della strada per l’Alpe del Lallo.
Quando sbucarono fuori dalla foresta, lo sventurato scortato si immobilizzò e restò senza fiato per lo stupore.
Lì, sul pianoro erboso, adagiato su una piattaforma a cui si accedeva attraverso una teoria di armoniose scale incrociate, si ergeva un tempio colonnato dall’insondabile bellezza. Otto giganteschi pilastri bianchi sulla facciata e quindici sui lati (il Triga, con l’occhio allenato del costruttore perito ne avea contata la quantità quasi senza accorgersene) circondavano una massiccia aula di cui si intravvedeva una monumentale entrata poco più in dentro.
I due spronarono il Triga che s’era fermato a rimirare tale splendore e lo condussero alla scalea che portava sulla spianata davanti al tempio.
Quando furono là, i due s’arrestarono davanti al portone e lo invitarono ad entrare. Il Triga a metà tra l’ammirato e il terrorizzato fece cenno di no con il capo. Allora uno di loro lo prese per il braccio e lo scortò fino all’ingresso. Lì lo invitò nuovamente ad entrare mettendo il pugno sull’elsa della spada. Il Triga si risolse a obbedire ed entrò nell’aula più splendida che avesse mai visitato in vita sua.
I marmi policromi del pavimento orientavano lo sguardo in un punto preciso in mezzo a quel salone dove c’era una pedana di legno. Sopra, un vecchio seduto a uno scrittoio imponente pareva occupatissimo a vergare lettere su un rotolo che scendeva sino a metà altezza dal pavimento. Tutt’intorno su uno sfondo di marmo roseo, delicatissimo, centinaia, migliaia di busti di marmo campeggiavano su scaffalature di pietra adornate con disegni floreali scolpiti a volute.
A metà altezza, prima d’una specie di matroneo severo che percorreva tutta la parte alta del tempio, un fregio di marmo a bassorilievi mostrava scene di combattimenti, esaltazioni e glorie. Al di sopra il camminamento era ornato da grandi statue di vestali dipinte, cariatidi che si dipartivano dalla balaustra e torreggiavano sino al soffitto le cui travi dorate si appoggiavano ai loro capi.
Quando si accorse del Triga, il vecchio distolse la sua attenzione dal rotolo. Borbottò qualcosa e poi si rivolse a lui in innumerevoli lingue, ottenendo sempre un cenno di diniego. Fin quando: «Italiano?» fece con accento germanico e qui il Triga, sollevato fece cenno di sì con il capo.
«Allora? Kvale merito è di te che hai trofato quassù il Walhalla?» chiese il vecchio apprestandosi a scrivere.
Il Triga lo guardò smarrito: «Non capisco» disse.
Il vecchio ripeté pazientemente la domanda.
«Questa è l’Alpe del Lallo» disse alla fine Triga associando i nomi.
Il vecchio fece un cenno di impazienza: «Preco, declina le tue imprese» disse, brandendo la penna d’oca verso di lui.
«Quali imprese?» chiese il Triga in preda al panico.
«Granti azioni che fanno te degno del Walhalla. Chi arrifa fin qui fa granti imprese. Kvesto è il tempio della memoria»
«Ma io non ho fatto nulla. Io aggiusto tetti. Costruisco case.» piagnucolò il Triga.
Il vecchio lo guardò sconcertato: «Non è possibile. Solo ki è destinato a lui, il Walhalla, fede il Tempio»
«Io l’ho visto ma non credo di doverci stare. Anzi devo andare. Sono in ritardo» replicò il Triga con un sorriso tirato, adocchiando l’uscita con la coda dell’occhio.
«Ferma, mortale» tuonò il vecchio. Poi emise una specie di ruggito.
I due guerrieri suoi accompagnatori si affacciarono timidamente al portone.
«Chi afete portato kvi?» chiese adirato il vecchio «Uno stupido, piccolo, banale, integno mortale».
I due si profusero in scuse e poi iniziarono un fitto dialogo con lui. Gesticolavano e parevano difendersi, scusarsi.
Il quale scuoteva il capo e batteva di quando in quando il pugno sul tavolo. D’un tratto si alzò e senza dire nulla scomparve in un andito del tempio. Quando tornò pareva corrucciato e deluso.
«Tempi moderni» sputacchiò. Poi volgendosi corrucciato verso il Triga gli chiese: «Nome e Cognome. Alle imprese penseremo noi. Poi tefi andare di là per il busto».
Del Triga, smarritosi nei boschi, ricercato a lungo e inutilmente, non si sentì mai più parlare.