Il suono livella e sgranchisce
l’onda che larga ricopre spessori
acerbi e letali
sgusciati da stoffe già andate.
Ma dietro le note e i fondali dipinti,
pallidi vetri di mondo infante,
quali sorprese, contorni terresti?
Un nuoto cristalleo d’acqua alla menta
e cenere, gonfiarsi vorrebbe indifeso
secondo al trillare?
Tutto ciò che si spera, il fare per fare,
l’amar per amare,
confuso è tra giochi: «Continuare, prego»,
atroci; costeggia il sentiero d’uscita
tentando, ironia, un ritorno…
Perché, ti chiedi, scorza di vento,
potesti sì scarso contare
i tuoi numeri e farli minori del vuoto
graffiando gli istanti nel tempo,
l’io dal te stesso scucendo
e ammiccando a decidere l’arte
di cui dovevi morire?
Siamo così senza senso,
così secchi a noi stessi
da stare un secondo in attesa
vincendo d’usare le dita
e palpare l’esistere nostro singhiozzo…
Il bosco odorare di muschio
che aspetta terrosi contamini
permea la vita che strana ci è resa:
se fossimo incerti sul volo del gufo
di notte
forse, al giorno ciechi,
scuseremmo l’uguale nostro cianciare,
parole piegando
per renderle logore fiamme
di che le stringiamo.
Ma, se questo sappiamo
e la piuma continua a volare
allora che meriti, anima,
se non il chiodo all’intrico
del ramo ritorto?
(1987)