Rodolfo scrutava di sottecchi il ponte del fiume. Visto da sotto, visto da sopra, di lato…. era un ponte, niente più di un ponte. Un’arcata cementifera gittata tra due rive opposte con dimezzo un corso d’acqua che nella primavera imbaldanziva pien di spuma e d’inverno e in estate rigolava pian piano lasciando scoperte falde di pietrisco ove crescevano erbacce alte e viscidume verde d’alga nei pozzangheri a cerchi in cui si dibattevano gli ultimi pesci prima della siccità.
Il Panebianco si lisciò la barba sudicia e scosse il capo. Quel capo che un tempo era stato fino, di contabile, capufficio, direttore e infine amministratore delegato. Si guardò i polsini della camicia surunta. Rimaneva ancora la traccia dei gemelli d’oro ch’ei portava nel Consiglio per vieppiù far pesare la differenza: erano polsini illustri, il nonno senatore, farciti con un diamantino di non grandiose forme ma bastante e far gongolare gli amici e schiattare d’invidia i nemici che avrebbero volentieri ucciso e fatto sparire il cadavere pur di trovarsi al suo posto a sedere lì, in quel poltronone girevole torreggiante sulla scrivania monumento di palissandro.
Era tutta apparenza. Il tarlo aveva preso a rodere ben prima dei ragguardevoli risultati da ‘testa fina’. Ovvero essa aveva usato i risultati per annullare – o credere di annullare- l’opera del tarlo.
Il Panebianco si alzò dal sasso ov’era seduto. Aspettava la piena del fiume. Sì proprio la piena di quel torrente. Perché lui aveva una segreta speranza, una speranza che aveva coltivato fin da bambino, quando aveva visto in un giorno di pioggia tropicale alzarsi pian piano il livello delle acque. Divenute motose e marroni irrompevano con fare ruggente tra le curve delle anse, invadevano i marciapiedi del lungofiume, trascinavano le bancarelle degli orafi che fregiavano i murazzi e le facevano sparire, demolite, tra i gorghi amari.
Era lì che aveva preso la decisione che a un tratto della sua vita egli sarebbe sparito. Con un moto d’infantile protervia aveva deciso lustri prima che cosa sarebbe successo. Egoista fino in fondo come ogni bambino: a che pro Elvira si sarebbe lamentata, i figli ne avrebbero avuto traumi e debolezze. Non era colpa sua: la colpa era dell’inondazione o meglio dell’esondazione che, cancellando ogni traccia di ordine nell’ordine quotidiano della normalità, aveva cancellato la velleità più cara alla maggioranza degli esseri umani, che è quella della conservazione di ciò che si costruisce con i sacrifici. Eragli cioè stato cancellato lo scopo, il fine, la meta ultima. Così lui aveva sì costruito ogni cosa, ma senza fini. E aspettava. Tutto intorno a lui pareva svolgersi normalmente, ma il segreto che custodiva nel profondo della sua mente si ingrandiva ogni giorno. Ovvero mangiava ogni giorno sostanza e base alle azioni che compiva. Ai risultati che guadagnava. Alle apparenze che manteneva.
Poi un giorno la crosta si era sfondata. Non era stata una cosa improvvisa. Aveva ceduto poco per volta rendendolo, assente, vacuo, appannato.
Al contrario di ciò che si potrebbe credere, da allora prendeva decisioni con più facilità perché si sentiva franare. Così aveva smembrato i suoi beni, aveva creato un complicato gioco di successione per impedire ai figli di diventare ricchi troppo presto e alla moglie di dissipare per la disperazione tutto lo spendibile. Alla fine se n’era andato. Non lontano, anzi vicino perché voleva provare la gioia sottile e febbricitante dello sguardo di disapprovazione di tutti coloro che lo avevano conosciuto, magari avevano tremato davanti a lui, forse lo avevano maledetto, forse ammirato.
I primi giorni della sua nuova vita raminga e superficiale, sì perché questo era stato il progetto, vivere una vita di vagabondaggio senza scopo e di azioni senza senso, com’era stato in lui fin quasi dall’inizio, godeva dello sguardo di commiserazione di chi lo incontrava seduto su una panchina davanti all’edificio che continuava a essere suo ma di cui lui non usava più nulla.
Rideva mentre la sua barba cresceva a spicchi sulle guance, e si assentava quando i parenti venivano a provare a dissuaderlo. Faceva finta di non conoscerli, anche se li conosceva benissimo. Simulava tic facciali, smorfie invereconde, scorreggiava rumorosamente, lui prima sempre così compito, faceva linguacce, sputava per terra e pisciava sul marciapiede davanti a tutti.
Quando capirono che era senza speranza lo lasciarono stare. Probabilmente lo avevano interdetto, ma quando scoprirono come stavano davvero le cose ritornarono a minacciarlo. Loro volevano il suo denaro e i suoi beni, tutti e subito. Ma lui si era premurato. Oh, sì, si era premurato contro le pretese di quella strega di Elvira e quei mostri dei suoi figli che continuavano a vestire camicie ricercate e ostentavano, adesso, di non conoscerlo.
Rodolfo guardò il cielo. Si stava lentamente oscurando di nubi. Annusò l’aria. Era più facile sentire l’odore dell’aria lì da sotto, vicino al greto dell’acqua, sui camminatoi dove avvenivano tremende battaglie di pantegane e serpi. Lui adora va tali scontri: erano il suo spettacolo preferito. Tifava ora per gli uni, ora per le altre, e piangeva, sissignori, piangeva, quando qualche duellante ci lasciava le squame sui lastroni di pietra. Allora lui aspettava che i congiunti e i nemici se ne andassero parimenti e poi operava la sepoltura del povero corpo gettandolo nei gorghi dell’acqua, simbolo del tempo che mangia la vita e la memoria.
L’aria, in quel momento profumava di elettrico, ma di un elettrico insolito. E un brivido di eccitazione gli attraversò le costole.
“Domani vedremo” pensò e andò a prendere i cartoni del suo letto. Li sistemò nel solito posto, a fil d’acqua sotto l’arcata e si addormentò.
La pioggia si scatenò furiosa. Il Panebianco aveva deciso che a goccia scendente il sonno non si sarebbe dovuto interrompere.
Dormì così ventiquattr’ore. Fin quando non fu scosso da una manata rude.
«Alzati» gli urlò un poliziotto.
Egli fece finta di non sentire e si voltò dall’altra parte.
«È pericoloso qui. Devi venire via» ripeté quello.
Ma il Panebianco si turò le orecchie. A non ascoltare, la voce forse sarebbe svanita. L’occasione della vita era arrivata. L’esondazione, imminente. La sparizione, avvenuta senza colpo ferire. Il niente avrebbe avuto la meglio, com’era prima di quella vita bizzarra che tanto gli aveva dato e a cui lui tanto aveva restituito.
«Ohé! Hai capito? Sei sordo?» e fece per strattonarlo via dal suo giaciglio.
Il Panebianco non ci vide più. Prese la mano salvatrice e la morsicò con un mozzico micidiale, staccadita.
L’altro, un poliziotto, urlò di dolore e poi cominciò a colpirlo con il manganello.
Il Panebianco sentì i colpi sempre più attutiti, sempre più distanti. Finché non sentì più nulla.
Si risvegliò in un letto d’ospedale. Era pulito e lavato, sbarbato. Palpandosi il cranio avvertì alcuni rigonfiamenti laddove il bastone era calato con più violenza. Aprendo bene gli occhi vide Elvira a latere del suo letto. Leggeva una rivista femminile.
Il Panebianco si strinse nelle spalle. Comprese d’improvviso che una vita senza senso poteva viverla di più e meglio ove tutto sembrava avere senso. Così salutò la moglie: «Ciao» L’altra restituì uno sguardo interrogativo.
«Cos’hai da guardare? Posso uscire di qui domani?» chiese.
La moglie balbettò un: «Immagino di sì… credo»
«Bene. Fissami una riunione del Consiglio d’Amministrazione per domani mattina» e si girò dall’altra parte mettendosi a ronfare.