C’è un posto su quest’isola dove ci sono le formiche. La cosa non dovrebbe stupire: ogni remoto angolo di ogni remota isola tropicale pullula di formiche. Ma questo è speciale.
Per arrivarci bisogna attraversare una fenditura stretta della roccia. In basso il sentiero che porta nel ritano si confonde con il ruscello. L’acqua è fresca e non è semplice seguirlo a piedi nudi. Credo che la sorgente affiori, poco più in su direttamente dalla roccia, ma non sono mai stato a vedere il luogo preciso della polla. Questo fiumiciattolo c’è e basta, come tutte le cose che ci sono e non pretendono un’attenzione particolare per la loro esistenza.
Dopo la strettoia si addiviene a una minuscola spianata da cui si diparte un tratto scosceso: bisogna inerpicarsi in mezzo alle piante fino a una pastura, raramente illuminata dal sole, dove compare d’improvviso il termitaio. È una costruzione – sì ho detto proprio costruzione, anche se non di mano d’uomo – alta cinque o sei metri, larga alla base e strozzata verso la cima, come un gigantesco, asfittico albero di natale marrognolo. È esso formato da evidenti resti congestionati d’insetto che rinsaldano in loro ramoscelli, arbusti, e quant’altro di rifiuto naturale è possibile trovare su qualsivoglia prato. Tutto questo scarto forma una cupola cinese percorsa all’impazzata da miliardi di formiche che s’affaccendano su e giù per quegl’impervi in preda a un’operosità che definire febbrile è come pragonarla a un lento moto di lago calmo. Paiono piuttosto flussi sanguigni quelli fabbricati dalle piccole zampe e addomi e antenne che corrono di qua e di là, ora a rappezzare una falla, ora a costruire una nuova ala per quel labirintico mausoleo, flussi che non s’arrestano e paiono preda d’ordini convulsi, inaspettati, a mal guardare persino insensati. Ora c’è la fila di operaie che tengono in grembo le larve, ora quelle delle architette che recano materiale d’edificazione, ora vi sono plotoni di guerriere che mettono in mostra sviluppate mandibole, ora schiere di sottili formiche alate salgono sulle sommità del nido per prendere il volo.
Anch’io presi il volo or sono anni…. Non ricordo quasi, per venirmene qui, solo a compire un’opera mal intrapresa durante la mia vita normale e poi scontata, pianta, pagata, arrochita in questo purgatorio ostile.
L’isola del voto, come soglio chiamarla, l’isola della condanna, l’isola dell’espiazione, financo l’isola della resa. Ché, senza voler anticipare nulla di quel che voglio poi dire in seguito, la resa è forse la condizione che mi ha permesso e forse permette a tutto il genere umano quello speciale merito ch’è il sopravvivere senza troppo fango, lordura; quella stessa ch’applica la vita in quanto vita alla comune esistenza. Uno sporco fatto di minuscole umiliazioni, di considerazioni d’impotenza, di visibili incapacità e di manifeste limitazioni: tutte epifanie alle quali amiamo sfuggire mediante l’alta considerazione di noi stessi, proprio quella considerazione – insomma- che ci porta invece assai lontani dalla realistica immagine che non abbiamo in noi e che gli altri così acutamente vedono e ci somministrano con le loro ironiche osservazioni e le larvate risatine di disapprovazione. Senza peraltro veder la trave ch’è nei loro occhi, ma noi, genere umano, siamo – ahimé – accomunati da codesta cecità che ci deforma, ci gonfia e distoglie da noi stessi e dalle nostre occupazioni.
I giorni, al tempo dell’esaltazione che mi contagiava e mi faceva credere d’essere un uomo positivo, fabbro e artefice del mio proprio destino, si susseguivano con monotono fervore: ardevo di zelo per i conti accresciuti dalla mia sapiente amministrazione, ero pieno di ansia per le risultanze dei miei figli, ovunque essi operassero, qualunque cosa facessero, scrutavo con timore gli andamenti del futuro per ricavarne moniti e presagi a guida di ordinarie azioni con lo scopo di prevenire, predire, prefigurare: insomma ero un sincero amatore del fervore instancabile.
Producevo la mia vita credendo che il senso di tutto questo muoversi fosse esattamente guidare il movimento, ignaro del cosmo intorno a me.
Su quest’isola non bisogna ragionare in termini di giornate, bensì l’unità di tempo più consona è la stagione, ed essa è indeterminata. Le formiche con il loro breve essere non vedono neanche il compirsi di una stagione: esse sono tutte protese per il bene della loro comunità e le loro povere animule individuali sono pressoché spente nella dedizione totale all’edificazione del loro mondo.
Eppure fuori del formicaio v’è una vita snodata in larghezza ed altezza e profondità: vi sono i conigli che erodono alla base del formicaio, vi sono i maiali selvatici che corrono grugnendo per i boschi e ingollando ghiande e terriccio, inconsapevoli delle stragi di piccoli animali perpetrate con le loro zanne. Vi sono gli alberi, taluni maestosi, taluni umili, v’è il cielo e il mare, vi sono le ossa della terra che si compongono in monti e colline e dirupi… Tutto questo forse è inconcepito nell’orizzonte minuscolo che esse srotolano attraverso i sentieri della raccolta percorsi così affabilmente dalle minute zampe.
Naturalmente gli eventi rendono manifesta l’esistenza di un mondo così vasto: ad esempio i temporali che spazzano i reticoli terragnoli attraverso i quali riempiono i loro granai. Quando capita probabilmente, rassegnate dimenticano l’ecatombe perpetrata dalla natura e riprendono con nuova alacritudine il loro fatale compito.
Mi sono domandato spesso che cosa esse provino nei confronti del destino: la nostra umanità ci porta a interrogarci sul ruolo che individualmente giochiamo in questo universale sistema di biologie incrociate; pongono esse a esse stesse un interrogativo simile? Io non credo. Basta guardare come persino tra noi, vite superiori, vi sia alcuno che per tutta la propria esistenza non venga nemmeno sfiorato dall’incubo fatale sospeso sul capo, se, cioè, sia di qualche senso questo essere, questo palpitare del cuore, questo sforzarsi di pensare, cioè di trarsi fuori dal flusso tranquillo del vivere per guardarsi intorno e dire: “Ci sono!”.
Devo però ora spiegare perché mi trovo su quest’isola, nudo, seduto su ciò che rimane d’un tronco d’albero abbattuto da qualche tempesta a osservare il gran termitaio.
Mi svegliai un giorno, era un mattino di Febbraio, il gran mese dell’inutilità, con un acuto malessere. Respiravo a fatica e non appena mi alzavo dal letto vedevo ogni cosa intorno a me prendere un moto che mi dava alla testa. “Non potrò andare a lavorare” pensai con scorno. Mi distesi nuovamente nel letto e chiusi gli occhi. Questa pausa mi fu fatale. Mi esplose improvvisamente in mente che da lì a qualche anno o forsanche da lì a qualche ora tutto per me sarebbe finito. Sarebbero finiti i respiri che mandavano aria nei polmoni, finite le ansie, finiti gli scopi, finiti gli amori, i dolori… tutto. Il mio corpo si sarebbe irrigidito in un simulacro vuoto, guscio di cicala che si decompone in terra.
Mi assalì allora un terrore così profondo, così intrinseco da scuotermi tutto. Forse era la febbre, forse fu l’improvvisa consapevolezza che non avevo capito nulla di me, di ciò che mi circondava, di ciò che è l’Universo intero. Non riuscii più a rimettermi. Dopo una lunga malattia nella quale declinavo sempre di più verso il paventato stato intravvisto quel giorno di febbraio, decisi che la mia avventura in questi panni non poteva compiersi in un modo così vano.
Tutti si erano allontanati ormai da me: non più utile al mondo ero divenuto un peso per ciascuno, così presi essi, tutti, come me prima, dalle loro cose, sentimenti, aspirazioni; proprio le stesse ch’io stolidamente avevo indotto a perseguire, e m’ero affannato a indicare come pregevole scopo di vita.
Decisi allora di venirmene in un luogo appartato e solitario a morire, fuori dalla vista dei miei simili, anche i più vicini a me ed esterno all’umano consesso, un luogo infrequentato ma in grado di appagare i miei ormai essenziali bisogni senza la necessità di un’attività troppo congestionata.
Nella mia mente tornarono allora le visioni ch’avevo avuto da giovinetto quando, leggendo ciò che si doveva leggere in quel tempo, ossia romanzi d’avventura, avevo sommamente gradito quelli in cui uomini solitari s’erano trovati su qualche sperduta isola e, ivi costretti s’erano dati alla riedificazione delle loro anime grazie al duro lavoro ritmato dalle lente esigenze della natura. Leggende, lo sapevo benissimo, eppure così affascinanti, così adatte al mio sgomento.
Alzo gli occhi al cielo e lo vedo cangiare splendidamente: in questi paraggi le nuvole corrono veloci e si addensano, scaricano pioggia tiepida e poi si sciolgono con dolcezza lasciando il posto all’azzurro nel balenare di poche ore.
Qui solo finalmente posso dedicare a me stesso tutto quel tempo che mi sono negato laggiù. Trascorro i miei giorni nell’osservare le formiche, oppure il maturare delle noci di cocco sugli alberi. Oppure ancora nello studio delle onde che lambiscono la spiaggia. Mi pare che tutto questo ora si accordi con la mia povera esistenza. Non produco nulla, non aiuto nessuno, non sono aiutato da nessuno. Forse era questo bisogno di autosufficienza la causa del mio feroce operare, forse invece avevo bisogno di considerarmi formica parte di un meccanismo globale in grado di acquietare l’istinto di sopravvivenza che ci porta ad essere così importanti ai nostri occhi.
Mi alzo scrutando il cielo: il cuoio formatosi sotto i miei piedi non mi fa più sentire le asperità del terreno, i sassi, persino le spine dei rovi. Percorro il sentiero scabroso fino alla gola attraverso la quale il ruscello si getta in una pozza calda circondata da vegetali piangenti di cui non conosco il nome. In questa vasca di acqua dolce nuoto sollevato, con il volto verso il cielo.
E aspetto.
O meglio non aspetto più nulla. Attendo il compimento della mia vita.
Non rassegnato.
Conscio, è diverso.