Sollevanica.
Giudeonda.
Corlondinoda.
Sabelmanda.
Ecco le parole che ho inventato oggi.
Belle, eh? Che vi pare?
Sì, lo so, non sono le solite parole. Parole comuni.
Nossignori. Queste sono parole speciali.
Ora, tutti sanno, lo dicono anche i fisolofi dell’antichità, che non si possono inventare vocaboli, così per un buzzo qualsiasi.
Oh, ma questo lo so bene. Infati – udite! Udite! – io queste parole NON le ho inventate.
Avvicinatevi voi.
Sì dico a voi. Avvicinatevi un poco ché vi devo dire una cosa a dimessa voce. Ecco così va bene.
La susurro pian piano perché è gran cosa a dirsi e non son sicuro che tutti siano approntati a udirla.
Ecco che adesso ve la dico.
Queste parole mi sono state suggerite.
Proprio così. SUG-GE-RI-TE:
«E da chi?» mi chiederete voi.
Questo è il bello. Voi nella vostra presunta chiarezza e indefettibilità di ragionamento argomentate che qui, su quest’isola non c’è proprio nessuno che possa, mormorare, sillabare o suggerire alcunché.
È così che vi sbagliate.
Vi confido una cosa. Molti anni or sono, non appena posai piede in questo relegato angolo di mondo – potrei dire anche sperduto, isolato – isola appunto, circondata dal mare, con monte, fonte, grotta e vulcanino annesso che brontola poco, quel che basta per dare qualche scossarella ogni tanto, ma niente di pericoloso s’intende, ebbene quando arrivai m’illudevo anch’io al pari di voi, miei signori, che qui sarei potuto vivere finalmente disassillato dalle cure del consorzio umano.
Preciso due cose:
- io venni qui volontariamente
- io venni qui per disgusto dell’altro uomo.
Così mi capitombolai in queste foreste dove non v’è animale nocquente alcuno, mi costruii un rifugio, essenziale, per non ricadere in quella brama di lusso che tanto disprezzavo quand’era nel mondoma che purtuttavia m’annoiava con la sua insistente querimonia e i miei abituali cedimenti, mi sdraiai sul bagnasciuga del tutto nudo e dissi a me stesso: «Ora godi il silenzio dal brusio noioso e montante di tutti i susurrii, i berciari, i conversari, i sproloquiari dei tuoi simili, anima eletta».
Come furono felici quei primi giorni. Anzi quelle prime settimane.
Il tempo scorreva limpido e senza scosse, immerso nel silenzio che tanto avea desiato, senza dover rendere conto a niuno delle mie azioni, dei miei pensieri, dell’impiego del giorno e della notte.
Potevo parlare al vento e mi rispondeva un cicaleccio inusitato e soprattutto insensato di uccelli, il ruglio a singulti di qualche maiale, un belato di capra, lo stormire del vento gagliardo che piega i fusti delle palme e infine lo scacquìo delle onde marine, ribollenti di aria e di limpidezza.
L’idillio finì, o meglio iniziò a terminare una sera dolce d’autunno. In realtà era estate – qui è sempre estate – ma io amavo allora scandire il tempo dividendolo ancora nelle quattro stagioni del mio paese. Non per conservare una parvenza di ricordo, chè anzi io volea assolutamente bandire dall’orizzonte mio ogni evento, ogni costrizione di quel sciagurato luogo dove tanto infelice era stato l’esistere a me, quanto piuttosto per mantenere un languore di circolarità del quale sentia acutamente di tanto in tanto il bisogno. Nella libertà assoluta che m’ero concesso decisi che potevo anche sottostare alla ruota delle stagioni e così contavo sommariamente il tempo suddividendolo alla buona in primavera, estate autunno e inverno, facendo coincidere questo con la stagione delle piogge che in qualche modo un poco più uggiosa era del restante dell’anno.
Dicevo di quella sera. Ero seduto sulla sabbia e ne sentivo sulla pelle delle natiche il calore incamerato nell’ardenza del meriggio quando ebbi l’impressione di vedere sgusciare qualcosa dietro di me, una forma saettante confusa tra i fusti degli alberi.
Intorpidito dall’assenza di qualsivoglia sentimento aggressivo che non avea più provato per tutto il tempo ch’ero rimasto lì, mi voltai di scatto e mi sollevai più curioso che impaurito, dirigendomi verso l’intrico del fogliame.
Ora è bene precisare che mai e poi mai nella mia vita io ho coltivato nel mio orizzonte di conoscenza l’idea balzana che presenze oscure potessero turbare le notti del mondo, credendo piuttosto io che il male o la malvagità causate fossero dagli altri esseri umani e che dunque, fuggendo essi, avessi di che essere intemerato per quanto riguarda tutti i sentimenti di timore o di spavento.
Eppure quello sguscio io l’avevo visto, ne ero certo. Mi avvicinai curioso al limitare della foresta quando il mio orecchio fu colto da un susurro.
Non sto delirando signori miei e anche se mi par di vedere le vostre teste scotersi commiserando – so che pensate che tanta solitudine poteva avermi divorato il cerebro e avermi fatto impazzire come il Selkirk ben prima di me, ma bisogna dire che lui era stato abbandonato sull’isola mentre io aveva scelto il mio stato privilegiato – io vi assicuro e vi garantisco giurando sul mio onore che proprio in quel momento udii il primo de’ susurrii presenti in alcune località di quest’isola. Ma non voglio precedervi o anticiparvi nulla.
Presi a vagare sotto la luce della luna per i tratti della foresta ma quella sera non udii più alcunché.
Un poco deluso ma rinforzato nel mio raziocinio, dedussi che il calore smodato cui mi ero sottoposto e forse il fatto di andare in giro sotto il sole senza nulla indosso, avrebbero potuto alterare la mia capacità di leggere il reale.
Tranquillo me ne tornai al mio focherello e mi addormentai.
Devo precisare che quella sera feci uno strano sogno che ebbi modo di confrontare poi con ciò che mi sarebbe accaduto di lì a poco.
Ecco il sogno in questione: io era in un boschetto di meli vestito di tutto punto quando un giovane uomo dalla carnagione diafana e albina, di straordinaria bellezza raggiunsemi presso un albero vicino il quale io mi era portato.
«Che fai costì tutto solo?» chiesemi.
Io, corrucciato per la rottura del mio silenzio personale, non gli accennai risposta, al qual fatto egli diede in una risata argentina – anche se un poco sinistra – e dissemi: «Benché ti possa scusare per questo sciocco atto d’orgoglio – anzi, potrei per questo lodarti assai – tuttavia voglio dirti che sei abboccato all’amo in maniera ridicola»
«Quale amo?» chiesi io.
«Quel che ti gittai quando ti convinsi a partire» rispose quegli.
«Io decisi di partire, da solo autonomamente e senza convincimento di alcuno» replicai stizzito.
Dipoi dopo che egli mi ebbe osservato con occhi velati di sarcasmo ma senza nulla rispondermi, gli chiesi: «E tu chi sei che mi parli così?»
«Come?» fece egli ridendo «Non mi conosci? Non riconosci il più bello tra gli angeli?»
Devo dire ché sebbene io non sia religioso né tanto meno superstizioso, nel sogno sentii raggricciarmi la pelle delle colonna vertbrale fino alle pieghe dell’ombelico al sentire quelle verba.
Indi quegli diede in una risata ancora più argentina e, quasi evanescendo, mostrò in trasparenza a quel volto angelico, il più deforme e il più turpe volto che io abbia mai osato immaqginare.
Mi ritrassi spaventato e sì facendo mi svegliai repentinamente.
Il fuoco era spento e un vento sostenuto mi parve preparare un temporale se non un uragano.
Mi alzai e mi apprestai a raggiungere velocemente il mio rifugio ben conscio di quanto velocemente possa mutare il tempo a quelle latitudini, quando mi risuonò in testa distintamente una parola che mi colpì con una sincope, come un maglio la sua pressa.
L’accozzaglia cacofonica di suono che ne uscì mi parve oscura, trasudante di malvagità. Non ricordo con precisione l’esatta successione delle lettere ma deovette essere una parola simile: «Tasdureo»
Mi immobilizzai e mi guardai intorno, questa volta spaventato.
«Chi ha parlato?» chiesi ad alta voce con lingua incerta.
Mi voltai di qua e di là e non vidi nessuno: era ovvio.
Non lo sapevo allora ovvero lo sapevo ma non potevo nutrirne sicurezza: su quest’isola non c’è nessuno. Non c’è nessuno oggi come allora, ma in quel tempo io non sapevo ancora.
«Chi ha parlato?» strillai nuovamente alzando il tono.
Ora m’invadeva una rabbia secca. Ero stato ingannato. Mi era stato assicurato che l’isola era disabitata, che non c’era anima viva. Ed ecco che la menzogna veniva scoperta e rivelata: qualcuno girava di tra i cespugli e le orchidee e andava pronunciando strani versi che parevano assumere la forma, il suono e lo stato di parole, parole misteriose.
Come dite’ Vi state annoiando?
No, no miei signori, state qua ancora un momento ad ascoltare.
Ometterò la parte intermedia del racconto e giungerò al culmine passando per una scorciatoia.
Come dite? Vi sembro matto?
Ve l’ho già assserito: io sono un umano equilibrato, senza desiderio d’essere notato per stramberie extrasensoriali o mistiche. Io nego la trascendenza, miei signori e ne sono smpre più convinto, così come d’altra parte, per esperienza diretta non posso negare l’esistenza delle Voci.
Ve l’ho detto: salto tutto l’avvicinamento, il corteggiamento di cui esse m’hanno fatto oggetto, ch’esse hanno curato con attenzione, rivelandosi tutti i giorni un poco acciocché io potessi, nel mio spirito algidamente razionale, inclinare pian piano verso la considerazione della possibilità che udire una voce, in fondo è un evento naturale, spiegabile, razionale senza tema di poter essere tacciato di religiosismo.
Scelgo dunque il giorno in cui mi venne finalmente rivelato un buon quarto di segreto sul quale io non voleva arrovellarmi perché, come già vi dissi, la natura non avanza misteri per l’uomo, semmai cose difficili da capire ma non così oscure e prive di senso da riuscire emozionanti e quindi verosimili nella loro insensatezza.
Vi sono stagioni nell’anno che più favoriscono lo stordimento della mente, e una di queste è l’estate cocente.
Vi sono momenti nei quali tanto è il desiderio d’annullamento nella canicola che s’è portati a travisare i richiami di realtà provenienti dal mondo delle cose: io era ormai impegnato a difendere con astuzia, senza aggressività o patemi d’animo, la mia integrità dall’attacco circolare che erami perpetrato da forze ostili.
Continue verba venivanmi proposti dakke voci sussurranti che s’erano ormai moltiplicate. Le sentivo emanare dalle cascate, dai rombi vulcanici, dallo stormire delle fronde, financo dai miei umori interni che brontolando, formavano suoni dagli alieni significati.
Io manteneva le mie posizioni e l’arrocco dentro uno stato mentale più interno che eliminava ogni difformità dall’uso di natura: non neagava le voci, semplicemente le considerava poer ciò che non erano, ossia voci di significato.
Detraendo il senso da quei farfugli riusciva a difendermi e ancora a dialogare con me stesso senza soverchia difficoltà.
Sino, appunto a quella sera, quella cioè in cui mi fu rivelata con semplice e straordinaria evidenza lamia missione.
Sera d’estate come dissi, trascorsa a guardare il tramonto sul mare. Avevo notato nel pomeriggio unprogressivo aumento del numero delle parole pronunciate, e ne avavo ricavato l’impressione d’un meccanismo che stava montando una pressione, come una molla di trappola che stesse per scappare. Una certa ansietà, piuttosto insolita in me, s’era impadronita della mia persona e vagavoi piuttosto irrequieto da un lato al’l’altro della spiaggia occidentale, ove l’incomparabile bellezza dell’astro calante regalava le visioni più suggestive e ammolcenti.
Mentre era lì disteso e sentiva questo trafficare di mormorii improvvisamente il giovane uomo del sogno si ricompose in materia – almeno così mi pare – davanti a me.
Io sobbalzai di ansietà, ma devo dire che in fondo me l’asettava questa comparizione: egli infisse in me i suoi occhi chiarissimi e mi sorrise.
Devo dire che nelle mie fantasie mai avrei potuto ardire di figurarmi un volto sì bello e un corpo sì perfetto. Egli era nudo ma del tutto privo di sesso. Ben formato, alto e albino sen stava a braccia converse con lieve curvatura di ginocchio.
Io mi alzai e procedetti verso di lui.
«Tu se’ il facitore di tutto questo?» chiesi alludendo al continuo sonorìo che albergava omai con me sull’isola.
«Tu» rispose lui lampeggiando di mistero quegli occhi quasi trasparenti, essendo essi appena trascolorati di grigio.
«Io?» ripresi meravigliato.
«All’incrocio tra sacro e reale, v’è chi diventa iniziatore di idiomi. Tale operazione va fatta in solitudine» risposemi quegli «tal quale tu sei».
Io lo riguardai confuso.
«Iniziatore d’idiomi? E quale potere avrei io che non solo rifuggiva l’idioma da cui si generò il mio considerare sul mondo, ma lo rinnegò al punto da votarsi insolitudine?»
«Appunto. Proprio questa scelta che tu facesti con l’aiuto mio ti portò a sì grave imbarazzo. O preferisci chiamarlo fardello?Ï disse quegli guardandomi con ardenza.
Io tacqui cercando di comprendere il suono di quelle parole.
«E quale scopo avrebbe questa mia ambasciata?» dissi meditando l’uso del segno ‘ambasciata’.
Quegli rise: «Ecco, vedi? La tua imbasciata è assai utile ai miei disegni. Io voglio che ogni cosa sia divisa e contrapposta, perché da essa nasce la vita»
«La vità è unità ribattei» poco convinto.
Quegli fece una smorfia orribile, rivelando un tratto nuovo e deturpe della sua bellezza: «Non quando deve vivere. Poniti dunque sulla via che ti è stata affidata e produci termini che offreano alla diaspora babelica opportuna materia di apprendimento»
«Fammela almeno vedere la torre che generò gli idiomi della separazione» chiesi, ormai rassegnato.
«Guarda dentro te stesso e la vedrai» rispose lui quindi si accostò mentre un brivido mi scorreva per l’intimo, mi prese le guance e mi diede il bacio più rovente che mai io abbia avuto da fanciulla o donna nel corso della vita mia.
Grudolina
Njoperskaja.
Drutelda.
Pargustrwia.
Eccovi altre parole. E così devo fare per l’eternità. Inventare parole nuove e affidarle ai sussurri che mi avvolgono: chissà quale lingua di quale pianeta in quale galassia le userà. Chissà mai quale senso verrà loro attribuito. Chissà quale divisione nelle cose essere genereranno.
L’immortalità che mi è stata donata è un guiderdone sufficiente – ancorché non un castigo – per questa vocazione che mio malgrado queste spogli mentali sono state obbligate a maturare da un minuscolo consenso di sparizione che le generò eoni fa.