«E abbattiamolo, dunque, sto albero» diceva il giardiniere del Traìno, mentre misurava con l’occhio spento par suo la dimensione e l’entità del lavoro che era dipresso a dover svolgere in quel fine settimana.
Il noce svettava maestoso e sicuro là sulla ripa poco scoscesa del prato che digradava verso lo sbocco della minuscola valle, proprio ove terminava la tenuta del Commendatore.
Costui, il Commendatore appunto, pareva infastidito per tutta quella querimonia. Già era stato ordinato l’abbattimento ma quando tornava, dopo la settimana di sacrifici avvinto alla sedia del suo transatlantico, ecco che l’albero era ancora lì.
Allorquando si era infuriato, la prima volta, il Vesenti aveva reclinato in basso il capo, sputato per terra e s’era allontanato senza dir parola. Era il suo modo di far sapere il suo disappunto, quello d’andarsene e non farsi più vedere. Ma quando il commendatore la settimana dopo era ritornato al podere, s’era accorto che più niente ivi era stato fatto. Le foglie padroneggiavano i sentieri, le siepi prolungavano i loro artigli spinosi oltre la rete, i frutti cadevano a terra riempiendo di marciume sguizzante al calpestio i prati e i sottopiante.
Sulle prime il commendatore l’aveva presa a male e aveva giurato che avrebbe cercato un altro giardiniere. Poi era subentrato un calcolo forse meschino ma concreto: un estraneo sarebbe costato il doppio o il triplo di Vesenti. Così il commendatore, che in quel momento non poteva permettersi spese ancor più grandiose, aveva deciso di soprassedere e di adattarsi al volere del bizzarro faticante. Il quale, per parte sua, viveva sereno senza curarsi troppo dei mancamenti del suo superiore.
Finché un giorno dopo aver schiacciato con la ruota chiodata della lussureggiante macchinona un cadavere di scoiattolo disteso nel mezzo della carraia che conduceva alla villa , il commendatore decise che si poteva nuovamente far conto sul fedele lavorante. Telefonò dapprima alla premiata ditta Sradica & Soci, indi chiamò alla del Vesenti magione, e come niente fosse, gli chiese quando sarebbe dipoi tornato.
Vesenti attendeva quella telefonata. Il Traìno per lui era, come per tutti i pari della sua generazione e di quelle precedenti, la sua fonte di sostentamento con fluviale sganciar di metallo sonante per poco o nulla facere. Nulla ovviamente rispetto alle fatiche balorde del campo normale o del letamaio o della stalla, perle di sudore che gocciavano a terra e intridevano del veleno dei miserabili le zolle fàtiche.
Quando la caverna voce del Commenda risuonò per la cornetta il Vesenti sorrise.
Come se niente fosse stato, ei rispose che sì, forse quel pomeriggio, anzi nel primo dopodesinare sarebbe arrivato a ‘completare’ i servizi della settimana.
Quando chiuse il telefono, Vesenti si sfregò le mani per la contentezza. L’aveva avuta vinta lui, il poverello pensava. L’albero sarebbe rimasto lì, almeno fin quando lui fosse stato il responsabile conduttore delle armate vegetali che battagliavano nel giardino della villa.
Quel pomeriggio, gongolando ei se n’andò con le mani in tasca e, ciondolando una danza di dimessa vittoria, diresse i passi su su verso il cocuzzo ove sorgeva la padronale dimora. Varcò il cancello guardandosi attorno quando vide un mastodonte bennato venirne via con un tronco divelto scaracchiato dai denti d’acciaro. Poco più in là il Commenda telefonava arcigno, un’ombra di crudele cattiveria nell’occhio.
Il Vesenti guardò meglio con triste presagio e vide che là ove sorgeva il noce v’era ora un cratere di terra fresca. Un graffio nella geometria perfetta del prato rasato ad altezza di tappeto, ora sporco di zolla e di pietrisco.
«M’aspetto che puliate tutto per Dominica» sbeffardò il Commenda.
In quel secondo il Vesenti dovette decidere da qual parte istare. Voltò l’occhio al cratere e il movimento non sfuggì al padrone che soffocò un singulto all’apparenza divertito. La mascella del lavorante ciondolò per un istante, poi rimessasi, cominciò a masticare un «E abbattiamolo sto albero». Davanti al trasecolìo del Commenda, ei prese la scure, si avvicinò all’albero fatto di niente che NON era più nel suo alveo e cominciò a menare pazzamente botte a quello che doveva esser tronco e che ora era solo vòto di legna o radici o polloni. Dopo buoni dieci minuti, attraverso i quali il superiore volle lì restare per veder come la sarebbe andata a finire, il Vesenti si alzò valutando con occhio critico l’inesistente traiettoria di caduta e poi urlò alla direzione del Commendatore: «Cadeeee».
Costui lo guardava divertito, fin quando, con sinistro scricchiolìo, egli non avvertì un precipitare di fronde invisibili verso di lui.
Quando fu colpito da quella forma di noce che non c’era, il Commendatore portava ancora sul faccione tremolante l’espressione di dubbio e di paura subitanea che si accende di fronte a ciò che non si comprende e men che mai si ritiene possibile, ad onta del fatto che possa arrivarti sul cranio con rumore di vero legno di vero noce e te lo sfondi con la stessa indifferenza di un ramo esistente.
Da parte sua il Vesenti si gettò la scure in spalla, e se n’andò, un po’ corrucciato per la perdita della prebenda ma ringalluzzito per aver potuto dire al malfidente signore schiantato a terra un sonoro: «Ben vi sta».