Quando le foglie diventano rosse e si effonde il profumo delle castagne e dei funghi, il ponte assume sembianze diverse: si copre di licheni verdastri e la traccia delle orme che consuma il centro delle assi si affolta.
Perché ci sia un ponte in mezzo al bosco non è dato sapere. Il sentiero sbuca d’improvviso su un minuscolo ritano: un’inezia percorrerlo a piedi scendendo fino alla curvatura dolce dell’incavo terricolo. Eppure il ponte è stato costruito bello e compatto, con tanto di spallette rotonde e corrimano in legno. Per proteggere il viandante.
Al fondo finisce contro un cespuglio di pruni. Così non c’è una vera e propria uscita. Piuttosto la fine del passaggio è coperta da un tripudio di foglie e spine, nella stagione corrente ancora più gialle e storte.
Non ho mai trovato il coraggio di attraversare quel ponte.
In tanti anni.
Mi trattiene qualcosa di onusto: un greve presentimento, un allarme invisibile, come se quel piancito di assi nascondesse un ché di definitivo, di irreversibile.
Così come è la vita: ogni decisione porta immancabilmente in una direzione ben precisa, ottundendo le altre, restringendo via via gli orizzonti che divengono sempre più limitati quanto più crediamo che la via porti invece verso una liberazione più grande.
Questo è forse il senso di illibertà che il ponte designa: attraversare un canale vuol dire arrivare su un’altra sponda. L’antica radice della parola rivale si attua qui così in pieno, come se ogni attraversamento presupponesse un nemico da stigmatizzare.
E per noi che vogliamo vivere in pace con la vita?
In pace, dico, cioè senza conflitti.
A prima vista sembrerebbe che ogni ponte voglia appianare la lotta tra le due rive.
Solo pochi comprendono che è invece dalla divisione implicata dal ponte che nasce l’angoscia del contrasto. Un terreno uniforme crea il presupposto di un’unità così interiore da considerare ogni cosa come unica. Lì il tempo si ferma, lo spazio si raggruma e dentro di noi si prospetta la pace perfetta che estrude la nostra personalità direttamente dentro l’universo.
Ma l’increspatura…
Quella da cui derivano i canaloni, i valli e in ultima considerazione le divisioni.
Tragiche differenze che scatenano passioni, generano odi implacabili, danno la stura a indifferenze esiziali per il nostro bisogno di umana considerazione.
Il mio piede si avvicina al gradino. In fondo il richiamo della diversità è così affascinante. Chissà che il ponte non mi porti in una terra divergente, dove gli alberi possono essere sì alberi ma anche qualcos’altro. In tanti l’hanno detto: masse fogliari verso l’universo e apici radicali spinti a vertigine verso il centro dell’universo, in una sorta di Ade nascosto così affascinante e duro da ricercare.
Sospendo il respiro per un momento, l’attimo necessario per deossigenare le cellule del cervello. E decongestionarle da questo desiderio di vita che ossessiona lo scorrere del breve mio tempo in forma d’uomo su un mondo gravato.
Il mio spirito si allarga oltrepassando il confine della pelle ed esplode verso l’alto, alla volta di alcune cascate di stelle, sede originaria del desiderio. Il fresco del vuoto cosmico permea nello spazio vitale occupato dalla mia personale vicenda terrestre.
Si stempera nei rivoli, cubicoli, anfratti, pieghe della mia personalità così inadeguata a percepire e a capire il tutto composito del sistema vivente, dalla sua origo ab ovo sino alla sua più compita realizzazione complessa nel grande sistema naturale allegato sulla terra.
Sento solo le piante che incontrano le alzate del ponte mentre contemplo gli abissi.
E salgono lentamente.
Guardo me stesso dall’esterno.
Non so se salutarmi, o salutare la parvenza del mio corpo che sta per compiere il gran balzo.
Se si tratterà di gran balzo o semplicemente di remoto attraversamento.
Rifletto sulla levità della vita di ogni singolo essere umano che varca la sua dimensione come un gravame portato al disequilibrio siderale, finalmente riportato al pareggio del sistema dalla morte.
Che ovviamente non è una morte.
Forse il ponte è la morte? E io sto completando gloriosamente il mio tragitto individuale? E dove la mia individualità si troverà quando sarò al di là? La perderò? Sarà più vivida e più accesa? O spenta per sempre?
Ecco. A pensarci bene è questa la paura – al netto della sofferenza – che ci spinge ad astenerci dal ponte.
L’acquisto della dimensione universale.
Se il tempo e lo spazio sono individuali, proprietari, l’universalità è assenza.
E chissà che in tale assenza non esista un’individualità più complessa a cui possiamo riallacciarci come i polloni di un ramo d’edera che vivendo separato dalla sua matrice, una volta ricongiunto, diventa vieppiù consistente e verde.
Qualsiasi sia la sorte non c’è più molto tempo ormai per esitazioni. Il piccolo percorso è stato quasi del tutto compiuto e il cespuglio di pruni si avvicina a sbarrarne il termine.
Un ultimo sguardo al bosco.
Pioggia di melatonina in forma di fiori di camomilla vorticanti come lucciole nella notte inizia a cadere intorno a me e un sonno greve mi assale.
Ecco, dormire.
Appacificarsi nell’insenso d’un lasciare le redini. Abbandonarsi.
E finalmente il sonno.
Un lento lasciarsi cullare dalle braccia del cosmo siderale.
Una dolce caduta nelle regioni del silenzio universale.
Verso le sorgenti della vita.
Verso Dio.