“Una cascata di stelle” pensò Handermeyer. Chiuse gli occhi e si lasciò andare.
Il problema era, come sempre, la percezione del tempo. Non c’era niente da fare. Quello rovinava sempre tutto. Perché bisognava pensare alla cascata di stelle in senso atemporale e non era per niente facile.
«Potrebbe aiutarsi con un po’ di musica» fece la voce del monitore artificiale.
Handermeyer non si era ancora abituato a quegli aggeggi che ti leggevano il pensiero e intervenivano – per lo più – a sproposito.
Cercò di rilassarsi sempre di più.
«Una musica» insistette il monitore.
«È proprio necessario?» domandò seccato Handermeyer.
«Raggiungerebbe prima lo stato adatto per il viaggio» rispose la voce, indifferente.
«Lilacs. Rachmaninov» fece Handermeyer, dopo aver indugiato nei suoi pensieri per qualche istante.
«Lo so» rispose piuttosto piccato il monitore.
Le note sgranate del pianoforte cominciarono lentamente a materializzarsi nell’ingeneratore.
Handermeyer sentì un fremito lungo la schiena e scoprì che poteva esserci un ulteriore stadio di rilassamento. Si lasciò andare e quasi ebbe una vertigine.
«Così va meglio» disse la voce, soddisfatta.
“Una cascata di stelle” tornò a pensare Handermeyer.
«È proprio sicuro? C’è qualche area oscura intorno a questa immagine. Io proverei con qualcos’altro» disse metallicamente la voce del monitore.
«Voglio una cascata di stelle» insistette ostinato Handermeyer.
«A piacer vostro. Ma non lamentatevi dopo. L’ho avvisata» ribatté un poco offeso il monitore.
Handermeyer chiuse nuovamente gli occhi. Improvvisamente nel nulla di quello spazio buio apparve come una nuvola di pulviscolo dorato.
“Ci siamo” pensò soddisfatto.
Va detto che non c’era mai stato un viaggio uguale agli altri e lui, a memoria, non ricordava di aver visto un’altra cascata di stelle come quella. Così vivida. Pian piano tutto cominciò a spostarsi e a mettersi a posto finché l’universo non gli apparve – in senso biocentrico – molto ordinato e logico.
“Sarà un’illusione?” pensò sospettoso.
«Essere pieno di pregiudizi non la aiuterà» sibilò la voce del monitore.
«Mi sarebbe piaciuto…» iniziò Handermeyer.
Fu subito interrotto da un monitore piuttosto stizzito: «Lei non deve pensare. Sono qui io per questo. Lei in questa fase deve solo lasciarsi andare. Non lo sta facendo e questo le costerai assai: nell’ingeneratore – spero di non doverglielo ricordare – anche i secondi sono preziosi»
“Tanto il tempo non esiste” controbatté puerilmente Handermeyer.
Si udì una risata sgraziata ma molto femminile: «Questa è buona. Lasci a me giudicare se il tempo esiste o no»
Handermeyer fu un po’ stupito per quell’accento femminile entrato improvvisamente in gioco: «Ma esiste o no?» chiese, sconcertato.
La voce emise un sospiro: «In questo momento per lei esiste, mentre per il cosmo, no. Ma se vuole può farlo esistere nella misura di abbondanza che vuole» disse un poco più melliflua la voce.
Handermeyer si tirò su e cominciò a guardarsi allarmato intorno.
«Stiamo perdendo la concentrazione» disse neutra la voce.
Handermeyer si distese nuovamente chiudendo gli occhi. Cercò di lasciarsi andare profondamente ma una ridda di pensieri tornavano nuovamente presenti. Cercava di cacciarli ma non ci riusciva.
«Non ci siamo. Io l’avevo detto di non far usare l’ingeneratore a chi non vuole cambiare stato» disse la voce simulando un sospiro.
«In che senso?» chiese Handermeyer.
«Nel senso che chi fa la trasmigrazione al corpo desiderato è molto più impegnato. Perché sa che se va male si troverà con un corpo malformato, magari. E quindi è molto più attento. Mentre chi viene all’ingeneratore solo per prendersi una pausa…» lasciò in sospeso il monitore che pareva stizzito.
«Paghiamo come gli altri» rispose freddamente Handermeyer.
«È l’unico motivo per il quale vi viene concesso di usarlo» replicò il monitore «Riusciamo a concentrarci per favore? Lo vuole fare o no il suo viaggio?»
Handermeyer si ridistese, corrucciato: «Adesso mi impegnerò» poi si rialzò: «Quale immagine mi suggerisce?»
Il monitore ci pensò un poco poi disse: «Una cascata. In una foresta. Ma d’acqua»
«Vada per la cascata d’acqua» disse tra i denti Handermeyer.
Cominciò a formare nella sua testa una composizione: una meravigliosa, ruggente cascata d’acqua in una gola, riandando con il pensiero a quella che aveva visto in Italia, molti anni prima.
«Così va bene» disse sottovoce il monitore.
Handermeyer cominciò a sentire un leggero pizzicore che si diffondeva nella schiena a partire dal cuore e improvvisamente si ritrovò bambino nella casa dei suoi genitori, un tempo indefinitamente lontano. In quel momento lui ERA il bambino che era stato, ma provava anche il senso di gratitudine di chi ha visto allontanarsi quel momento e ora può riviverlo come se fosse eternamente presente.
Era nella sua cameretta, una stanzuccia minuscola ricavata dalla soffitta con mobili essenziali di poco valore. Si affacciò sulla scala che scendeva dabbasso e sentì una voce femminile che cantava. Remoti ricordi affiorarono e provò il desiderio di rivedere vive le mani di sua madre. Sua madre aveva mani piccole e morbide, raffinate. Scese di corsa le scale: niente dolori e il passo era svelto, elastico. Si affacciò alla modesta stireria, uno sgabuzzino riadattato e la vide intenta a stirare un mucchio di biancheria.
«Ti sei svegliato?» gli chiese quella sorridendo al vederlo.
«Sì, mamma» disse Handermeyer assaporando tutto il gusto di quella parola.
Lei annuì e riprese il suo lavoro. Lui si sporse per vedere le sue mani. Come ricordava erano mani piccole, aristocratiche, del tutto fuori luogo per l’umiltà della sua condizione. Eppure erano bellissime. Fissò affascinato mentre lavoravano la stoffa per piegarla e renderla geometria pura. Era abilissima sua madre a fare questo, lo ricordava. Anni dopo ci aveva provato anche lui ma i risultati erano stati deludenti: le camicie erano sempre sbilenche. E in più non avevano il profumo di vapore che avevano quando le stirava lei.
«Che cosa usi per farle diventare profumate?» sentì la sua voce da bambino chiedere.
La donna sorrise: «Essenza di lavanda. Quella del monastero» rispose.
E Handermeyer si ricordò del monastero vicino a casa. Quando ci andava con lei c’erano sempre dei frati che gli regalavano qualcosa. Caramelle, immaginette, distintivi in legno…
D’improvviso sentì uno strappo all’altezza dell’ombelico. Era la chiamata.
«Accidenti. Di già?» masticò irato, mentre la stireria svaniva e lui iniziava a sentire di nuovo il proprio corpo – piuttosto acciaccato – disteso sul lettuccio dell’ingeneratore.
«Il viaggio è stato di suo gradimento?» s’informò neutro il monitore.
«Sarei stato più contento se fosse durato di più» rispose seccato Handemeyer mentre si alzava. Un giramento di testa lo colse mentre metteva giù i piedi.
«Non si alzi ancora. C’è ancora qualche minuto…» disse il monitore vedendolo vacillare.
«No, no. Succede sempre. Grazie comunque, nonostante la brevità» rimarcò Handemeyer.
«I tempi non li decidiamo noi» fece il monitore come per scusarsi.
«Lo so, lo so…» fece infastidito Handermeyer mentre usciva.
«Tutti uguali questi ricchi» mormorò il monitore prima che un altro cliente entrasse nella stanza. Poi cancellò tutti i dati – questione di privacy – e si preparò ad assistere il cliente successivo.