«È lei, è lei»
L’omino infagottato di cappotti dentro quella specola artigianale, fatta di cartoni recuperati dall’adiacente ipermercato, si sfregò le mani e allontanò gli occhi dal visore binoculare del telescopio.
Anche quello era artigianale, assemblato insieme da lui medesimo, il ragionier Pancrazio Labelli, che aveva comprato il “Kit dell’astronomo dilettante” per corrispondenza, comprendente:
– un telescopio completamente smontato da rimontare appunto ad opera delle solerti mani del compratore
– un diario delle osservazioni in forma di brogliaccio prestampato con le caselle per segnare meticolosamente la data e l’ora di qualsiasi ritrovamento celeste.
– un doppio disco di cartonplexiglas girevole sul quale erano raffigurate in forma di punti fluorescenti tutte le costellazioni dell’emisfero australe. Doveva esserci stato un errore nella composizione del Kit, ma a Pancrazio piacevano quelle conformazioni così diverse dal suo cielo. Dovette ovviamente procurarsi un’altra volta celeste in miniatura per orientarsi nello scrutamento del cosmo.
– una biro fluorescente per segnare al buio (come ogni astronomo dilettante che si rispetti) eventuali dati o scoperte scientifiche da comunicare alla grande comunità degli studiosi dell’iperuranio
– una copia della rivista “Mondi celesti” dove c’erano articoli che sbrodolavano calcoli su calcoli che il Labelli non sapeva neanche riconoscere per una delle loro cifre meno che abissalmente cosmiche.
Ma lui era contento listesso, il Pancrazio, perché era un astronomo dilettante senza pretese. Gli bastava di intuire gli anelli di Saturno in quella stella particolarmente luminosa che aveva identificato dopo che Guido, il salumiere glielo aveva indicato una volta quand’erano andati, ai tempi in cui la sua cara Felicita c’era ancora, su al campeggio montano di Luglio. Era stato vent’anni prima, se non rammentava male. A parte il freddo, l’acqua ghiaccia che a lavartici dentro ti si raggrinzivano tutti i muscoli in una serie di dolorosi crampi e i temporali di montagna di cui egli aveva un sacrosanto terrore, immaginando che più in alto si era, più vicini ci si trovava all’origine della violenta saetta di luce, di cui, nei suoi terrori, rannicchiato in fondo alla tenda, gli pareva di sentire l’odor sulfureo ozonizzato, ebbene a parte queste considerazioni, conservava un ricordo grato, anche se triste perché velato dall’assenza di quelle notti passate sdraiati a scrutare la grave volta celeste in cui il pulviscolo delle stelle pareva un lancio impazzito di frammenti opalescenti su un tavolo di velluto nero.
Il Guido che un po’ si intendeva di stelle gli indicava le principali costellazioni: l’aveva imparata da soldato, quando, nel battaglione operativo s’era trovato catapultato nel deserto a far da esca per le esercitazioni internazionali degli eserciti d’Europa e d’America: era come se, in un gioco di calcio, egli e i suoi compagni d’Italia avessero fatto le palle, aspettando che qualcuno le calciasse. Il Guido era tornato malconcio per via d’una certa rissa con un intero battaglione di marines (avea detto lui ma alcuni dubitava che la fosse andata proprio così).
Ora in quel prato solitario delimitato da pini, in cui erano piantate le tende delle due famigliole, l’ex soldato operativo Guido Bisogna, insegnava la virtù dell’orientarsi allo sprovveduto Labelli che non finiva più di stupire e che avrebbe portato cari gli insegnamenti, dopo che gli ebbero contagiata la smania dell’astronomia, per la passione che iniziò a divorarlo e lo avrebbe portato ad diventare astronomo dilettante fai da te.
Ma da un po’ di tempo l’anelluto pianeta aveva perduto d’attrazione ai suoi occhi perché egli, nel corso abissalmente lento degli astri nel cielo, aveva avuto modo di pensare, ed era giunto a una conclusione. La luna la potevan vedere tutti, idem per Giove o per, appunto, gli anelli di Saturno.
Ma c’era una cosa che, con un po’ di fortuna, gli avrebbe regalato una fama imperitura lassù nelle etereee regioni cosmiche.
Egli s’era messo in testa di divenir scopritore di una cometa per potergli dare il suo nome: la cometa Pancrazia. Aveva sfogliato fiori di Atlanti celesti ed era giunto alla conclusione che non esisteva ancora una cometa similmente nomata.
Ma perché proprio una cometa? può chiedere l’inesperto di cose celesti: non sarebbe bastata una stella?
“Eh no, mio caro” si diceva lui con la caparbietà propria di quelli che non hanno un largo raggio di vedute. “Una stella se ne sta sempre ferma lì e, visto che le più grandi e visibili sono già state soprannominate a milioni, a me sicuramente ne toccherebbe una minore. Passata l’euforia della scoperta quel nome sarebbe rimasto lì a riempirsi di polvere per i secoli a venire, scovato ogni mille anni da qualche studioso più puntiglioso che voleva sapere il nome di quella minuscola stellina, in quel dato quadrante, praticamente invisibile all’occhio umano.
Una cometa, invece…
Tutti lo sanno che esse sono portatrici di jella, di catastrofi o di buone fortune a seconda dei casi…. ma un fatto che le accomuna tutte è che quando se ne avvista una tutti ne parlano e la gente fa a gara ad andare sulle colline con un binocolo per sperare di intravvederne la forma. La cometa emana un fascino a tratti colorato di mistero. E la cometa Pancrazia non sarebbe sicuramente stata da meno.
Così il Labelli si era documentato: sapeva tutto, ma proprio tutto sulle comete: sia su quelle già scoperte, sia su quelle da scoprire, la cui esistenza, per via di certi astrusi e incomprensibili calcoli fatti da qualche maniaco, era supposta ma non ancora provata. Così con metodo scientifico egli si era segnato i quadranti del cielo dove avrebbe potuto trovare, a seconda degli anni o delle stagioni, una cometa, anche piccola, per poter così compire e coronare il sogno di una vita.
A dire il vero egli desiderava ardentemente scovare una cometina tutta sua perché coltivava un secondo sogno, ancora più segreto. Egli avrebbe voluto conferire anche un altro nome alla sua piccola scoperta: la cometa Pancrazia si sarebbe dovuta chiamare anche Felicita, a imperituro ricordo di quegli occhi che da ragazzo lo avevano stregato e che si erano spenti nel mare della follia molti anni più tardi, quando proprio la famigliola formata da lui, i due figlioletti e la moglie, aveva vieppiù bisogno della maternale icona ma il vuoto non si era mai più colmato.
Pancrazia Felicita, Pancrazia Felicita, si ripeteva febbrile, notte dopo notte alla ricerca ansiosa di un punto nel cielo apparso d’improvviso, non segnato da nessuna mappa astrale. Labelli non era un uomo facile alle ossessioni. Aveva condotto sin lì una vita modesta, operosa, silenziosa, anche un poco sottomessa. Eppure pian piano il fascino dell’Universo, complice la luce argentea delle piccole faci che lo trapuntavano, lo aveva catturato. Egli ne era diventato totalmente succube e così scrutava, scrutava, scrutava quell’orrido nero nella speranza di illuminarlo con un’epifania di luce.
Sotto sotto egli sapeva d’essere un illuso: quel suo giocattolo non poteva certamente competere con i telescopi professionisti: gli astronomi ad essi deputati maneggiavano fior di apparecchi calibrati, costosi e immensamente potenti. Eppure egli sperava nella fortuna del neofita, ed era pure convinto che in fondo se lo sarebbe ben meritato un piccolo posto negli annali. La sua vita, che non era stata un granché fino ad allora, tutta orientata al sacrificio di sé per la famigliola, poteva ben aspettarsi un riscatto così da poco agli occhi dei più ma così importante per lui e per il valore che egli stimava di sé, incrinato e messo in dubbio dall’erosione della vecchiaia incipiente che gli faceva doler un poco di più la schiena nelle serate d’inverno e che lo abbisognava di occhiali sempre più spessi per poter distinguere con certezza il fatale bagliore nella calotta binoculare del suo telescopio fatto a mano.
Le notti si susseguivano lente, lente come i cerchi costruiti idelamente dalle traiettorie dei pianeti o della Luna ed egli incanutiva, minato nel fisico ma giammai nella volontà, ché egli si era proposto di perseverare nella sua ricerca finché risultato, forze o fiato gli avessero consentito il permanere nella specola senza troppi danni.
La sua ostinazione così adamantina era documentata dal quaderno delle sue osservazioni, ch’egli teneva in bella grafia con un rigore scientifico estremo, anche se la più parte delle diciture che potevansi trovare nelle pagine era d’un simil tenore: “Questa notte niente di notevole” Oppure “Nel cielo non arde nulla di nuovo” chè i suoi commenti, con l’inspessirsi della vita, gittavano ora sul filosofico, ora sul morale, come se osservazione e arte del filosofare andassero a braccetto sempre più compenetrate l’una nell’altra.
Egli era giunto ormai alla veneranda età di anni ottantasette, da compiersi di lì a due giorni, ma egli era incartapecorito e determinato nella sua ricerca da parere che il tempo gli avesse fatto il favore di scordarsi di lui, lasciandolo, vivo, vegeto e lucido il sufficiente per saper ancora distinguere nella lente l’eventuale luce sì tanto agognata.
E fu una algida notte di gennaio, proprio quella notte dei due giorni precedenti il suo compleanno che d’un tratto, in una porzione di cielo da lui scrutata milioni di volte e sempre risultatagli implacabilmente buia, gli parve di vedere uno sfarfallio sospetto.
Il cuore prese a battergli ed egli sentì una rispondenza nel cerchio delle tempie.
Possibile che la fortuna gli riservasse proprio al termine di una vita devota e dedicata, la lucente sorpresa ch’egli aveva invocato per così tanti e tanti lustri?
Si sentì invadere da un groppo di commozione che gli inumidì gli occhi. Egli si levò gli occhiali in tutta fretta, si asciugò la lacrima che si era formata nel dotto lacrimale per l’impeto dell’emozione, disappanò le lenti e tornò ad affacciarsi alla finestra binoculare che dava sull’infinito.
E lo vide di nuovo quel bagliore. Era proprio una luce dove prima non ce n’era mai stata.
Ricontrollò le coordinate, fece scorrere con somma lentezza la ghiera del puntamento dello strumento e si rassicurò del fatto che non fosse un riflesso, un bagliore dello specchio. La luce se ne stava ferma ed era indiscutibilmente una luce, piccola e confusa, ma di quintessenza certamente luminosa.
Col fiato mozzo il Pancrazio prese il quaderno delle osservazioni. Le sue mani tremavano ed egli dovette costringersi a calmarsi prima di scrivere l’annotazione fatale.
«Oggi, addì ecc. ecc. alle ore ecc. ecc. nel quadrante ecc. ecc.è stato avvistato un corpo luminoso all’apparenza lì situato laddove in precedenza nulla v’era.»
Si aciugò la fronte madida con il solito fazzolettazzio bisunto e poi aggiunse: «Qualora esso corpo fosse una cometa, essa deve esser chiamata Pancrazia Felicita dal nome del suo scopritore e della sua assente compagna»
Pancrazio si sedette. L’emozione lo aveva travolto e adesso il fiato gli mancava davvero. Si riscosse. Doveva dar disposizioni per avvertire il mondo scientifico della sua scoperta. Dovea registrare la sua cometa e far sì che tutti l’avessero a chiamare con il nome ch’egli aveva stabilito.
Poi una gioia dolcissima lo avvolse. Gli sembrò che finalmente la sua vita avesse avuto il compimento. Quello era il suo zenit, la meta lungamente perseguita. Si alzò barcollando per andare a vedre ancora una volta la sua scoperta.
«È lei, è lei» disse sfregandosi le mani, mentre uno strano senso di leggerezza gli pervadeva le membra.
Si sentì improvvisamente leggero, come se la carica degli anni fosse improvvisamente sparita e si sorprese ad immaginarsi lassù, nella remota distanza dell’iperuranio galattico, sospeso a contemplare la sua cometa.
La sua cometa.
La sua cometa: lieve e diafana come un’anima morta ella ora gli ammiccava dai sentieri siderali. Pancrazio Labelli perse il senso del tempo e dello spazio, in quel desiderio di andarle incontro, di essere lei, di contemplarla nella sua fredda luminosità.
Chiuse gli occhi e una lacrima, l’ultima, gli scese sulle guance fredde in quell’algida notte di Gennaio.