(Da: “I dieci racconti dell’Aria”)
Forse non ti ho mai raccontato di quella volta che sono scappato dal campo di concentramento sussurra lo zio al nipote.
Il nipote lo guarda e per pietà gli dice che questa storia da lui non l’ha mai sentita. In realtà è la quindicesima volta che gliela racconta.
Nella camera d’ospedale è tutto un via vai di malati e di morti e di infermieri e di visitatori. Quello vicino al suo letto sta tirando le cuoia osserva il nipote e dice piano a sua madre forse non va avanti fino a domani mattina. E’ difficile parlare con il cannetto dell’ossigeno che ti sta dentro al naso e poi il respiro sempre più pesante questa volta non ce la fa proprio, fanno diventare la storia una tiritera lunga e senza un senso preciso. Forse è perché il cervello già non funziona più bene pensa la sorella e sta anche lei ad ascoltare con le mani in mano seduta vicino a quella squallida sedia di ferro.
Meno male che ci sono le tende tiriamole un po’ così almeno uno può morire in pace e tirano le tende vicino al letto. Il racconto va avanti: di nuovo il tedesco che ti tira una bacinella di acqua bollente uno sguardo di morte di uno che la morte l’ha già vista un sacco di tempo fa e non l’aveva preso. Però lei ritorna e si prende tutti, anche se scappi lei ti trova sempre, persino quando scappi dal campo di concentramento.
Adesso che non parla più gli occhi sono rivolti verso l’alto il corpo percorso da fremiti come se l’anima fosse lì lì per staccarsi per prendere il volo o lo slancio verso qualcosa. Chissà. Neanche più un mormorio solo il respiro pesante, che si affatica di più ancora. Non c’è neanche più il posto per sedersi perché arrivano tutti quelli dell’altro malato che tira avanti senza guardare nessuno e tutti lo davano già per spacciato e invece è ancora lì. Parlottano a bassa voce quelli e ogni tanto danno una sbirciatina di qua e scuotono la testa. Se sapessero quello che ha passato, la mitragliatrice puntata sulla testa e il tedesco che ride perché gli sembra già di vederla saltare come un cocomero. Un volta mi hanno detto che per fare il suono di un manganello su una testa in un film si sono messi a manganellare le angurie. Alla fine uno non riesce neanche più a morire in pace nel suo letto. Gli infermieri sono due energumeni che lo tirano di qua e di là, lui tutto rigido come uno stoccafisso e quello sguardo verso l’alto che si appanna, chissà che cosa vede forse rivede tutta la vita forse non si rende più conto di essere lì in quel letto, magari rivive qualche ricordo lontano adesso che il dolore lo isola da tutto magari io stesso sono solo più il sogno di uno che sta crepando. Magari sono proprio io che sto crepando adesso e mi ricordo lo zio che è morto tanti anni fa, quando ero un ragazzino.
Forse morire è spegnersi, forse non lo è. Oltre al guscio vuoto che occhieggia adesso dalla bara rimane però quello sguardo che andava in alto e quei fremiti come quelli di un tuffatore pronto a tuffarsi in quel mare inchiostro eppure esitante, nel timore che l’acqua, in fondo in fondo sia solo un’illusione…
(2000)