La prima cosa di cui si rese conto dopo il risveglio, era l’assenza della minima traccia di dolore. O di oppressione del capo. O di depressione.
Si sentiva leggero, cosciente, lucido, come in gioventù.
Un buon cinquant’anni in meno.
In realtà si sentiva MOLTO sollevato e MOLTO presente.
Aprì gli occhi e balzò seduto.
Si trovò seduto a terra, nudo, e si stupì percependo la chiarezza dei dettagli che vedevano i suoi occhi. Lui, quasi cieco, si era dovuto accontentare, negli ultimi anni, di intuire le cose attraverso un indefinito velo lattiginoso che confondeva tutto.
Si guardò il corpo e fu attraversato da un brivido: era un corpo giovane, scattante, pieno di energia e vellutato.
«O che razza di sogno è questo?» si disse.
Intorno c’erano refoli di nebbia che rendevano indistinto il luogo, immerso in una luce decisa ma gentile.
Cercò il bastone per alzarsi in piedi, ma l’attuazione immediata di quel proposito senza fatica alcuna e senza aiuto di qualsiasi strumento di sostegno, gli infuse una sensazione di euforia e di buonumore quale non aveva più provata da anni.
Sì guardò intorno per cercare una traccia, un sentiero, un’indicazione: «Non ricordo di essere mai stato in un posto come questo» si disse, stupendosi della forza della sua mente, abbastanza scientifica da ricordare che spesso i sogni si basano su frammenti di ricordi rimontati e riaggiustati alla bisogna.
Ma che cos’era quello? Un vaneggiamento?
Eppure sembrava così reale.
Si guardò intorno alla ricerca di un punto di riferimento. Tra i buffi di nebbia si intravvedeva apparire e sparire la sagoma di qualche albero.
La natura sembrava fiorita e l’aria era piacevolmente tiepida senza essere calda.
Mosse qualche passo, allargò le braccia e rise. Rise. Aspirò a pieni polmoni, chiuse gli occhi e volse il capo verso il cielo. Il quale, come a secondarlo si aprì per un istante: filtrò un raggio di sole che gli illuminò le guance e gliele fece risplendere come a traverso d’uno specchio.
Il calore si estese al resto del corpo che rabbrividì di piacere.
Si distese sull’erba. Un sottile vellicore gli fece accapponare la pelle della schiena e dei glutei. E lo prese un infinito struggimento. Lui era lì adesso. E aveva la sensazione che questa volta sarebbe stato per sempre.
Strano: non aveva più paura. Non aveva più davanti agli occhi della mente l’orrido fantasma che l’aveva accompagnato sempre in quegli ultimi tempi, l’ombra della nera signora ghignante che faceva capolino da per ogni dove, nella notizia di un’epidemia, oppure d’una strage al mercato, oppure d’una nuova guerra o attraverso la figurazione di nuovi e assortiti mali che infestavano l’esistere povero e miserevole di quelle formiche umane popolanti il globo terracqueo.
Già, ma quello dove si trovava ora, era il globo terracqueo?
La netta sensazione che le dimensioni si fossero spostate e che il gran meccanismo della mente non governasse più lo scorrer e del tempo né quello dello spazio erano forse la cagione di un sentimento di struggenza che adesso gli aveva invaso il cuore.
S’alzò in piedi con facilità fin troppo plastica e riprese a camminare in quel che sembrava ora un gran giardino disseminato di fusti d’essenze diverse.
Tutto odorava di fiori ma d’aiole ben ordinate non v’era traccia. Eppure, nel disordine apparente che strutturava con grazia quella dimensione v’era una singolare bellezza, non fatta di proporzione, secondo il criterio estetico comune, bensì d’una solitaria grandezza, autoreferente, come a dire che al proprietario poco o punto importava che essa potesse essere condivisa da taluni; e proprio per questo era gradevole.
«Io son fatto di questo disordine» si disse, appuntandosi un fiore all’orecchio. Di poi raccolse altri fiori e se ne fece una corona che si pose in capo. In breve essa attecchì piantando le radici direttamente nella scatola cranica, insufflando attraverso gli apici radicali il sentire della pianta entro la sua persona.
Egli non se ne stupì, considerando la cosa come normale e imparando piuttosto a considerare la natura vegetale della vita come una sfaccettatura diversa della stessa gemma dalla quale era stato tagliato anche lui.
“Mutevolezza” fu il suono che sentì sussurrare nel suo capo mentre in un pianoro concavo la nebbia si diradò per un istante, lasciando intravvedere un paesaggio mutaforme in cui alberi e cespugli, e radure di grano, e prati di narcisi si scioglievano l’uno dentro l’altro senza soluzione di continuità, quasi che fossero materia duttile che la mente poteva plasmare.
E alcune regolarità iniziarono ad apparirgli agli occhi in tutto quel trasmutare di forme e colori.
Inizialmente erano forme indistinte che sembravano tenersi lontano sull’orizzonte, come esseri d’avvistamento che avessero preso la loro soddisfazione nello scrutare quel nuovo venuto e ambissero piuttosto d’allontanarsi che d’avvicinarsi.
Forme in sembianza umane, che egli aveva la sensazione fossero siffatte per adattarsi piuttosto alle abitudini del nuovo ospite piuttosto che per loro intima essenza.
Eppure c’era bellezza in loro e molta.
Erano giovani e giovinette addensantisi e disfacentisi in fattezza leggiadre, argutamente combinate con gli intrichi del paesaggio che si rispecchiavano a vicenda in una gara di piacevolezza assai soddisfacente allo sguardo.
Egli si avvicinò, volendo parlare loro, ma più s’appressava più ne coglieva l’inconsistenza trascendente. Esse portavano con sé il tempo e lo distorcevano curvando lo spazio dentro le pieghe del corpo in sorrisi, ammiccamenti e adescamenti del tutto pudici e puri.
Poi altre stupefacenze attrassero la sua attenzione. Percorrendo il sentiero rigolato di pietrisco ai lati ed erboso al centro intravvide un sommo edificio libero dalla nebbia che splendeva in turbinio accecante di diaspro ed altre pietre preziose.
Era stanziato sur una collina e aveva sembianze di splendidissima villa stagliantesi su cieli d’azzurro cristalleo. Vaghissime forme d’uomini e donne a gruppi e circoli passeggiavano per il giardino con una leggerezza che gli apparve sospetta fin quando non provò su di sé tale assenza di peso, quasi come se quel redivivo corpo brunito che sentivasi addosso spogliato si fosse dei gravami del mondo fisico e ardesse di pura vita spirituale, saggiata al fuoco, dolce e leggerissima.
Senza provare alcuna vergogna per la sua assenza di vestimenta, ché tutti i corpi lì pareano magnifici pur non indossando alcunché, s’appropinquò all’ingresso dell’edifizio, sentendosi quasi chiamato entro. E fu subito là, perché – altra cosa che sperimentò esattamente in quel frangente – non era più legato dal lento e farraginoso processo di causa ed effetto dato dalla necessità, assai scarsa peraltro, rielaborativa della mente per mettere avanti o indietro le cose e così comprenderle.
No, si trovò là davanti, direttamente nell’istante istesso in cui aveva pensato d’esser là. Tale prodigio gli apparve del tutto naturale e inconcepibile al tempo stesso. Un gran vecchio era seduto su uno scranno di pietra adiacente al portone aperto.
Gli sorrise e gli fece cenno d’avvicinarsi.
«Allora?» gli chiese amichevolmente, come l’avesse conosciuto da gran tempo.
Egli lo contemplò e trovò il lui un sentore di antica simpatia che proveniva da lunge nel tempo, come se quegli fosse stato lì sin ab ovo, e guardasse con partecipata allegria tutti quelli che si presentavano alla soglia.
All’incertezza manifestata dal nuovo arrivato il vecchio rise, si alzò e andò ad abbracciarlo: egli non si stupì, come se il trasporto fosse lo stesso ch’egli avea provato alla vista del veglio: «Benvenuto» disse.
«Benvenuto dove?» domandò egli di rimando.
«È quel che si prova quando s’entra nell’eternità» rispose quegli ammiccando.
«Ordunque, sarei…» disse quella novella anima discerpata dal corpo.
«Morto. Esatto» fece il vecchio.
«Avrei detto che sarebbe stato più terribile» osservò il giovane «Anche perché mi pare invece che tutto sia piacevolissimo e di grande effetto»
«In realtà, dal nostro punto di vista tu non te ne sei mai andato»
«Non ricordo bene il mio nome di là» e pronunciando quell’espressione “di là” ebbe un brivido, come uno ormai abituato a stare in quel “di qua” che dall’altra parte, grazie anche agli ammattimenti d’artisti corrotti era rappresentato in modo sì nero e funereo.
«Oh, questo non ha alcuna importanza, credimi» disse il vecchio con occhi brillanti «Come non importa alcunché qui la parola ricordo. Dove il tempo non c’è il ricordo è solo un suono privo di senso».
«Eppure il tempo…» iniziò il giovane.
«Guardati» disse il vecchio «Paragona questo tuo corpo con quello che avevi prima – tanto per ragionare con un criterio temporale…» ridacchiò l’uomo»
Il giovane si guardò con un senso di intensa soddisfazione.
«Bene. Il tuo stato è quello che provi ora e che sarà sempre uguale. Perfettamente pacificato. Perfettamente ed eternamente appagato. Senza cedimenti e senza fratture»
Il ragazzo si strinse nelle spalle. Si lasciò indietro il vecchio ed entrò nell’edificio. In un cortile circondato da un colonnato bianco aggraziato, una vasca di acqua azzurra si estendeva a perdita d’occhio. Anime e anime prendevano il sole sedute su lettini bianchi o facevano il bagno nuotando nel frescore dell’acqua. Tutto sfavillava di armonia.
Egli si mise a osservare una striscia di splendidi affreschi brillanti che percorreva la parte alta delle pareti interne alle colonne.
Camminò per un gran tratto sorridendo a tutti, ricambiato da sguardi tranquilli. Poi vide un lettino vuoto.
Si guardò intorno alla ricerca del proprietario ma una ragazza di proporzionate fattezze gli fece cenno di accomodarsi: «Vieni, vieni» gli disse invitandolo ad accomodarsi.
Ed egli fremendo di piacere si dispose a stendersi per godere di quella luce frizzante, divina, che illuminava ogni angolo del meraviglioso giardino.