Settimo racconto dei Tarocchi
«Immaginavo qualcosa di diverso» disse il ragazzo, disorientato.
L’auriga faceva sfrecciare il carro tra le pozzanghere, lungo la strada che attraversava un bosco fitto con i colori dell’autunno.
D’un tratto un refolo di nebbia venne incontro a loro.
«Ci mancava ancora la nebbia» gemette il ragazzo tenendosi ancora più stretto ai pomi della biga.
Ben presto furono immersi in un’opalescente atmosfera lunare: gli alberi erano diventati ombre che incombevano sul ciottolato tra i vapori appesi alle foglie.
Arrivati a un bivio l’auriga si fermò.
«Destra o sinistra?» chiese in tono neutro.
Il ragazzo rabbrividì: «Non avete un mantello, per favore… uno straccio qualsiasi? Ho freddo»
«Vi abituerete» fece l’altro per tutta risposta. Dopo qualche istante ripeté la domanda: «Non per essere insistente, ma dove devo andare?»
«E che ne so io? L’autista siete voi… mica io. Dove dobbiamo andare?»
«Da nessuna parte. Dobbiamo semplicemente andare»
Il ragazzo fece un gesto stizzito: «Boh, andiamo a sinistra» disse.
«Sicuro?» fece l’auriga.
«Immagino che voi conosciate la strada meglio di me…»
«In realtà no» disse l’uomo frustando i cavalli che ripresero a trascinare il cocchio «Siete voi che dovete decidere»
Il ragazzo sospirò e si strinse rabbrividendo nelle spalle. La sua pelle era puntinata su tutto il corpo di migliaia di piccole efelidi chiare. L’effetto pelle d’oca era notevole.
«Basta andarsene da questa nebbia. L’umidità amplifica il freddo» disse tra sé e sé come a ripetersi una lezione appresa immemorabile tempo prima.
L’auriga scosse il capo.
«Non mi va di essere commiserato» sbottò il ragazzo con sussiego «è vero che sono morto da qualche ora, ma dovete darmi il tempo di abituarmi a questo caos»
«Voi umani non riuscite ad abituarvi» disse l’uomo in tono canzonatorio «Avete sempre l’odore del tempo addosso. Non riuscite a liberarvene. Credete che sia ancora un onore, un privilegio averne fatto parte. Invece qui il vostro tempo non conta nulla. Zero. Non vi serve a niente»
Pian piano il sole scaldava sempre di più la nebbia fin quando in uno squarcio luminoso sbucarono in una piana erbosa soleggiata.
«Siamo quasi arrivati» disse finalmente l’auriga dopo aver percorso un tratto lungo di prati perfettamente piatti.
«Era ora» grugnì il ragazzo.
Si sentiva sporco, pieno di polvere, con la schiena a pezzi e lo stomaco in gola per i sobbalzi causati dai sassi sporgenti sul manto stradale.
Improvvisamente dopo una curva un edificio si parò improvvisamente davanti a loro. Sembrava un tempietto preistorico, scavato nella roccia. Solo le dimensioni erano differenti: quello era immenso e il portale tutto sbrecciato poteva misurare tranquillamente quasi cinque metri.
La biga si fermò proprio lì davanti.
«Capolinea» disse l’auriga.
«Devo scendere?»
«Faccia lei» ironizzò l’uomo, impaziente.
«Allora scendo…» disse il ragazzo.
L’auriga aspettò che fosse a terra poi ripartì come una saetta, sollevando una nube di polvere.
«E adesso?»
Dalla porta uscì un vecchio che gli lanciò uno sguardo pieno di disapprovazione e di disprezzo.
«Siamo un po’ in ritardo» disse.
«Ma qui il tempo non ha senso, giusto?» oppose il ragazzo.
L’uomo fece un gesto infastidito: «È una cosa abbastanza relativa. Per voi non ha più senso, ma percepiamo il suo trascorrere. È fallace, ingannevole, dica quel che vuole. Ma un minimo di movimento…»
«La seguo, non facciamo tante storie. Dove dobbiamo andare?»
L’uomo disse, ruvido: «Venga con me»
Dietro la facciata così primitiva c’era un salone tirato a lucido: le statue che accostavano una guida di pelle rossa morbida, gettata sul pavimento, brillavano perfettamente levigate, come nuove.
«Sembra nuovo qui» disse esitando il ragazzo. Il vecchio sorrise senza voltarsi: «Amiamo fare dei cambiamenti» disse senza commentare oltre.
Il ragazzo non finiva di guardarsi intorno: a parte la perfezione dell’arte data, ad esempio, da proporzioni incredibilmente armonizzate, c’era qualcosa che gli sfuggiva e che rendeva al tempo stesso quell’ambiente familiare, come già visto.
Si fermò davanti a un gruppo scultoreo variegato, trionfante di corpi voluminosi.
Guardò senza dire nulla il vecchio che tirò dritto senza neanche degnarsi di voltarsi.
«Ecco che cosa c’è che non va» si disse improvvisamente.
Era stato uno stupido a non capirlo subito.
Quel salone non finiva praticamente mai. Stavano percorrendolo da almeno dieci minuti ma il corridoio non accennava a terminare, come anche i marmi che gli stavano ai lati.
Il vecchio annuì: «Esatto» disse d’un tratto.
«Esatto che cosa?» chiese il ragazzo.
«In genere gli altri ci mettono parecchio a scoprirlo ma lei l’ha intuito subito. Questo piacerà al Condottiero» rispose il vecchio.
«Condottiero?» fece il ragazzo, e al pronunciare questa parola sentì un fremito poi si distrasse: «Ma se questo corridoio è infinito, dove stiamo andando?» chiese confuso.
«Dove, dove, dove…» masticò stizzito quello «Provi a fare un balzo, un colpo d’ala… Non c’è nessun dove qui. E nessun prima o dopo» disse infine.
Il ragazzo continuava ad essere confuso.
«E poi lei è morto, non lo dimentichi. E comunque non si preoccupi. Ci si abitua presto» disse infine spremendo un mezzo sorrisetto.
«Se non devo chiedere dove stiamo andando, che cosa posso dire?»
L’uomo ridacchiò: «Non ho detto che lei non può chiedere qualcosa, ho solo detto che una richiesta basata sullo spazio o sul tempo non hanno senso.
«E allora che cosa ha senso?» oppose il ragazzo, aggressivo.
«Inutile spiegare. Siete troppo orgogliosi e testoni» disse il vecchio riprendendo a camminare.
Il ragazzo desiderò fortemente che il salone finisse. Di lì a poco il corridoio iniziò a rimpicciolirsi fino a giungere a essere un tunnel stretto, chiuso da una porta. Davanti alla porta c’era un angelo, seduto alla scrivania. Il suo volto era luminoso, come anche le ali, ripiegate elegantemente dietro le spalle.
La sua bellezza inondò gli occhi del ragazzo: «Che cosa era lei sulla terra?» gli chiese.
«Non ricordo bene. Un principe mi pare» disse il ragazzo.
«Un rampollo di casa reale? E come ha fatto a morire?» rispose l’angelo scribacchiando qualcosa su una tastiera.
«Non ricordo… sono un po’ confuso»
L’angelo lo squadrò da cima a fondo.
«Dovrà aspettare un po’…» disse «Prima di lei devono passare dei poveracci morti per un’epidemia e poi… vediamo… ecco ci sono dei morti in mare… sarà un po’ lungo. D’altra parte, qui non c’è tempo quindi in realtà lei non aspetterà proprio nulla… buffo no?» e fece una risatina.
Digitò un codice e una porta si aprì nella parete del corridoio. Poi disse al vecchio: «Accompagnalo nella sala d’attesa e stai con lui»
Il vecchio brontolò: «Un’altra volta non voglio più accompagnare un principe. Lì dentro aspetteremo un’eternità…»
L’angelo si mise a ridere nuovamente: «Ben detto. Un’eternità. Andate andate…»
Il ragazzo entrò nella porta e si trovò in quella che sembrava la sala d’attesa di una vecchia stazione, trasandata e sudicia.
«Dobiamo stare in questo schifo?» chiese irritato. Da qualche fessura spirava un alito di vento tagliente.
Il vecchio lo guardò compassionevole: «Preferisce andare là sotto?» e indicò il pavimento «Non glielo consiglio. Meglio aspettare un’eternità qui che…»
Il ragazzo, deluso andò a un distributore di fazzoletti di carta ne prese uno, lo mise sulla seduta di una poltroncina tutta piena di sospette macchie scure e si sedette sconsolato.
Se questo era solo l’inizio…