«Vedo… vedo….» Madame Chirò sfarfallava le mani adunche sulla boccia di cristallo. Il Bìccheri sornionava sul puf: sembrava mezz’addormito come al solito, con quel buffo fez di traverso sulla zucca. La nappina gli dondolava sugl’occhi, come il tappo dello strabico ma il suo sguardo era perduto altrove, confuso dentro il suono gracchiante di quella vociaccia.
Dopo qualche minuto che colei ripeteva l’istesso ritornello, il Biccheri si riscosse e rimbrottò: «Ohé, che lo vogliamo dire quel che vedete?»
La vecchia indovina lo guardò di storto, prese un respiro roco, strabuzzò l’occhio, come faceva sempre quando infingeva d’esser posseduta e, sospirando, sussurrò: «Uno spettro maligno vi sopravanza. È vostro fedele compagno. Vi riempie la casa di fetore»
A mano a mano ch’ella provedeva nella descrizione, le guance del vecchio principiarono a imbiancare mentre ogni punto era sottolineato da un suo singulto, sicché pareva che venisse recitata una filastrocca: «Unospettromalignovisopravanza – Hic!- Èvostrofedelecompagno – Hic – Viriempielacasa – Hic! Hic!»
Soddisfatta dell’effetto ottenuto ch’avea sbirciato sul pallore del cliente quella si tacque.
Quando si riprese, Biccheri tremulò con un filino di voce: «E quale rimedio?»
La madame scosse il capo, sconsolata.
«Difficile. Difficile» disse come a se stessa.
Infastidito e impaurito da tutto questo procrastinare ch’egli interpretava come un segno ulteriore d’un avverso destino abbattutosi sulla rimanente poca sua vita, egli sbottò: «Diamine. Proclamate il verdetto e non si indugi oltre»
«Mi spiace per voi» concluse furbescamente quella «è troppo al di sopra delle vostre possibilità» e s’acconciò a congedare il cliente. Ma costui non volea affatto farsi estrudere da quella stanzastudio piena di cabale e di velluti parietali.
«Quanto al di sopra?» chiese.
«Troppo» ottenne come risposta.
Ei ci pensò su un minuto poi ribatté: «Quanto?»
«La magica polvere di Madame Chirò non si vende e non si compra» sentenziò.
«Fatela meno lunga» tagliò corto il Bìccheri.
«Ma voi siete anzitutto sodale e non solo cliente. Quindi per voi farò uno strappo» disse, come infastidita estraendo una busta rigonfia da un cassettino che stava sotto la sfera.
«E farebbe codesta polvere?» si informò il vecchio estraendo dalla tasca un minuscolo libretto d’assegni.
«Prima il compenso poi la spiegazione» replicò Madame Chirò mettendogli davanti alla faccia il palmo proteso.
La caraffa stava lì, davanti a lui. Piena d’acqua.
Ei era seduto lì a scrutarla con que’ suoi occhiacci grigi, cisposi, cascanti.
Si sfregava il mento, per niente convinto di ciò che stava per fare.
Nello stanzino umido e muffito per il troppo ribollire delle minestre le ombre si disegnavano sul soffitto, essendo egli abitudinario di non fare troppa luce la sera. Era un principio di sana economia che pian piano aveva sfociato in una gretta taccagneria: non per lo sforzo degli occhi egli non faceva luce, era per non doversi rammaricare dei denari che gli avrebbe succhiato la bolletta. Quei vampiri.
Per questo la lampadina del lampadario assembrava più a una lumierina da miniera che a una fulgente sorgente di luce. Ed era inverno. E veniva notte presto. Troppo presto.
«Maladetto l’inverno» imprecò, sfregandosi l’occhi. Aprì la falda della veste da camera bisunta che indossava per tenersi un minuzzo di calore addosso, visto che per la maggior parte della giornata – per la stessa ragione di prima – il riscaldamento languiva inerte nelle viscere della cantina, pur essendo, come s’è già detto, inverno inoltrato.
Estrasse da una tasca interna la scatolina che gli aveva dato Madame Chirò.
«E se è tutto un imbroglio?» disse con se stesso posando la scatolina sul tavolo vicino alla cuccuma d’acqua.
Sì, era stata una pazzia quella di lasciarsi convincere ad andare da quella pitonessa. Un indubbio segno di debolezza. Di vecchiaia incancrenita.
Si asciugò il filo di bava che si stava sfilando dalle labbra con un fazzolettaccio nero di croste. Ripose lo straccio nella tasca segnata e riprese a sfregarsi il mento con aria dubbiosa.
Aprì la scatolina con la sua mano tremolante e sul tavolo cascarono alcune bustine di colore diverso.
«La mia medicina» disse assorto, contemplando i colori delle cartine.
«Potrebbe essere una farsa. Scioglierò una di queste nel bicchiere e non succederà niente.» mormorò.
Se fosse stato così, se lo sarebbe meritato, asino che era. Spendere così i pochi spiccioli della sua vecchiaia.
Il Bìccheri in realtà era ricco, sfondatamente ricco, ma per una sorta di melanconia forse causata dalla solitudine, gli s’era insinuato nel cervello un tarlo. Un timore, dapprima sottile poi sempre più radicato e aggressivo che gli rosicava le idee e pian piano le faceva convergere verso una sensazione che era quella di essere sul punto di perdere ogni avere e diventare poverissimo.
Avea cominciato così a vedere nemici dappertutto e la sua indole, non propriamente sociale, s’era chiusa decisamente, in modo da non permettergli neanche più d’uscire di casa. Il poco cibo di cui abbisognava gli veniva recapitato sull’uscio ed egli, dopo essersi assicurato che niuno passasse nei dintorni, con una veloce apertura ritirava il sacchetto e tornava a sprangare al mondo l’uscio della sua magione.
Così era andata fino a quel malaugurato giorno.
Eh, sì. Era stato colto di sorpresa, il Bìccheri. Era il primo giorno d’autunno e una qualche languida dolcezza gli aveva invaso i nervi, ed egli non era riuscito a resistere.
Dopo molti mesi di reclusione volontaria aveva sentito un incredibile desiderio d’uscire.
Aveva preso il bastone e il cappello, aveva indossato un vecchio cappotto e aveva varcato la soglia.
Il cielo era terso e amabile, l’aria profumata di castagne incipienti, o almeno così egli aveva interpretato l’odore di abbrustolito che pareva venire dal parco vicino alla sua casa.
E lì s’era avviato, attratto anche dalla frotta di ragazzi e giovani e famiglie e vecchi che ivi si dirigeva.
Di quando in quando, qualcuno meravigliato, lo salutava e gli chiedeva come stesse, ch’era così tanto tempo che non si vedeva più in giro.
Egli sbuffava, irsuto e con una mezza parola ringraziava e ricambiava il saluto con l’atto di chi avvertiva d’essere lasciato in pace.
Quando giunse al parco vide che una selva di giostre e casotti di tela era stata innalzata tra i viali. Si ricordò che quella era la festa del paese e si sorprese a passeggiare in mezzo a tutta quella folla – evidentemente doveva esserci parecchia gente lì giunta dai vicini paesi – incuriosito e compiaciuto.
Così, tratto da quella malia derivata forse dalla novità dell’uscita, giunse al casotto che esponeva sulla fronte dell’entrata quel cartello.
«Madame Chirò – estesiologa e radioterapista – lettura della mano e rimedi a portata di mano»
“Merce per gonzi” avea pensato e stava principiando a girare alla larga quando vide uscire , quasi di soppiatto, da quella tenda il commendator Pangalli. Era questi un omiciattolo più largo che alto, suo compagno di bisbocce secoli prima, quando anch’egli – incredibilmente – era stato giovane e aveva avuto voglia di divertirsi. Quando costui vide il Bìccheri osservarlo con quell’occhio scrutatore, sbiancò, salutò frettolosamente e fece per scappare.
«Ehilà, come…. Uno come te… che cosa ci facevi da quella ciarlatana?» gli disse senza tanti complimenti. Il Pangalli parve animarsi un poco, riacquistare qualche parte di colore, poi trasse un sospiro e rispose: «Non puoi capire tu»
Il Bìccheri s’accostò. Gli andò quasi sotto il naso: «Che cosa non capirei io?» fece agitando il bastone.
«La solitudine, mio caro» disse l’altro quasi spaventato, vedendosi quel corpo da contusione roteargli davanti agli occhi «la solitudine. Da quando mi è morta mia moglie…»
«O che, l’è morta Elvira?» fece Bìccheri meravigliato.
L’altro lo guardò con commiserazione, represse un singhiozzo.: «Sono solo, caro amico, io che non l’ho scelta la solitudine, come te. Ma qui» fece il Pangalli e abbassò la voce guardandosi attorno come se stesse per rivelargli un segreto che non dovea essere rivelato «Quella donna, Bìccheri, quella donna…. Mi ha consegnato la salvezza»
La solitudine. Presti arretrò colpito sul vivo. Egli non sapeva che cosa era la solitudine? Oh, sì che lo sapeva. Quanto tragicamente lo sapeva. L’avea repressa egli questa infame sodale, ma nella realtà lo rosicava dentro come un tarlo che distrugge pian piano il mobile di legno lasciando soltanto inutile e sporca segatura.
«Quale salvezza?» fece egli curioso e tralasciando di girare il bastone.
Pangalli strinse gli occhi, lo scrutò per bene, sospirò, emise uno sconsolato: «Anche tu» e poi gli fece cenno d’entrare nella tenda di Madame Cihrò.
E così adesso si trovava davanti quelle bustine, che avea pagate care e salate, pur se la vecchiaccia gli avea detto che per lui si sarebbe fatto un prezzo speciale, vista che l’era la prima volta. E che se non sarebbe stato soddisfatto, sarebbe stato rimborsato in tutto e per tutto.
L’unica raccomandazione era che almeno nei primi tempi la posologia doveva essere attentamente differita: mai due bustine una dietro l’altra.
«Potrebbe scatenare fantasime nel cervello e condurre a conseguenze ben peggiori del male» avea profetato quella sinistramente.
«Balle – diceva Bìccheri – è che vuole coprire di inutili misteri, fatti scientificamente e ragionevolmente sicuri»
Eppure, nella notte incipiente, nell’oscurità di quel minuscolo salotto, un trillo d’allarme parve scuotere per un istante quelle ossa vecchie e ciancolanti. Per fortuna che lui, Bìccheri, era al sicuro da tutte quelle favole. Eppure, adesso che doveva scegliere il colore della busta, si sentiva inquieto.
Alla fine si decise. Allungò lentamente la mano verso una cartina azzurra che se ne stava in fondo al mucchio. L’alzò fin quasi davanti a suoi occhi. Non si distingueva nulla.
Nessuna scritta.
Nessuna cifra.
Niente.
Eppure la madame era stata chiara: «La prima sarà la bustina dell’istinto. La solitudine si vince con un atto d’istinto che supera sentimento e paura.
«Ottimamente» disse Presti «Andiamo a scornarci sulla credulità umana» disse compatendosi per aver ceduto alla curiosità e strappò un lembo di quella carta. Aprì il sacchettino e guardò dentro. Una minuscola presa di polvere azzurrina giaceva in fondo.
Incerto, sollevò la mano fino all’imboccatura della caraffa, poi con un movimento insicuro rovesciò tutto il contenuto nell’acqua.
Il vecchio guardò deluso la polvere che scendeva lentamente sul fondo concavo della cuccuma.
«Mi ha fregato» fu il suo primo pensiero. Ma ecco che qualche bollicina cominciò a salire dal concentrato. Un filo di fumo ceruleo salì dalla bocca del vaso e aumentò d’intensità con l’aumentare del ribollire.
Una luce fluorescente diffuse un debole chiarore spaesato che mutò i contorni delle poche povere cose contenute nella stanzetta.
L’acqua intanto ribolliva sempre più forte come posta sulla fiamma alta della cucina a gas. Il liquido principiò a rovesciarsi e il Bìccheri a provare inquietudine perché di tra quella luminaria e il flusso del fumo azzurrognolo, udivasi provenire dalla tazza come una sorta di lamento assai sgraziato che dapprima pareva un arrangolare raschioso e di seguito un gemito profondo, un singulto e un vaneggiare di suoni, come di bocca che tenta di articolare parole.
I capelli si arricciarono sul capo del Presti che se ne stava muto e terrorizzato ad osservare quell’orrore di liquido che pareva adesso essere vivo e senziente e ciacolante.
Fin quando una voce, forse femminile non esplose nel silenzio della cameretta: «Eccomi» disse ed emise una risata argentina che era tanto più orribile quanto più manifestava allegria. Un’allegria sinistra piena di ombre oscure.
Il mattino dopo il Bìccheri si levò di buon’ora. Non era riuscito a dormire per tutta la notte dopo aver dialogato per tre ore buone con quella voce. S’ei fosse stato storico, avrebbe appreso alcune importanti verità in merito ad alcuni fatti capitati qualche secolo prima nella sua città, ma appunto egli non era storico e così si era limitato a chiacchierare di pettegolezzi inutili del passato, di figli illegittimi di personaggi illustri e caritatevoli, illuminati e compìti cittadini riusciti a mantenere immacolato il proprio nome nonostante alcune porcate ch’aveano combinato a danno di qualche povera sprovveduta servetta ch’era capitata loro tra le unghie.
Il Bìccheri rifletteva furiosamente mentre intingeva la fetta biscottata mattutina nel latte freddo. Aveva consumato una cartina, è vero ma ne aveva un’intera scorta e di colori diversi per giunta, tante erano quelle che gli aveva dato madame Chirò. Rifletté che non avrebbe dovuto usarle subito, che avrebbe dovuto conservarle anche perché aveva il sentore che se quelle le aveva pagate relativamente poco, secondo il detto della stregaccia – non certo secondo il proprio razionale modo di vedere – , le seguenti le avrebbe dovute conquistare a suon di pecunia.
Tuttavia la vista di quelle buste e la prospettiva di ciò che sembravano promettere gli aveva messa addosso un’inquietudine così grande che si decise, così su due piedi di fare un secondo esperimento.
«Solo uno» si diceva mentre apprestava l’apparato nella stanzetta «di poi metterò via l’armamentario e lo userò solo in casi gravi di solitudine ammorbante».
Scelse una busta verde e versò il contenuto nella tazza.
Stesso effetto della sera precedente con tanto di luci e ribollimenti, ma invece d’un suono fesso un canto argentino si diffuse per la stanza. Emozionato al sentire che trattavasi di nuovo di femminili note, si diede a immaginare quanto bella dovesse essere stata l’emettitrice di quel canto sì ammaliante e quando venne apostrofato da un mellifluo: «Chi mi vuole?» egli si apprestò – almeno nelle sue aspettative e nella sua fantasia – alla conversazione con una rappresentante del gentil sesso più conturbante e più eccitante di tutta la sua vita.
La sera seguente la sua casetta gli apparve angosciosamente vuota e silenziosa. Per non indursi in tentazione aveva nascosto la scatolina con le buste rimanenti in un armadiaccio pieno di banane. Egli le comprava acerbe a tonnellate, dipoi le metteva a stagionare e maturare appunto su quelle scansie in un locale così freddo che una cella frigorifera non avrebbe potuto svolgere meglio il compito di quella stanza. Ma ora egli si trovava con i gomiti appoggiati al tavolo, alla luce della sua lumierina, e cercava di non pensare a quel che aveva sentito nelle due conversazioni precedenti.
La cosa che lo stupiva di più è che, passato il primo momento, durante quei chiacchierari egli si sentiva gradatamente come più disinvolto, scherzoso e in grado perfino di fare battute divertenti, arte nella quale egli non aveva mai mostrato particolare inclinazione. Eppure gli sarebbe piaciuto saperlo fare, proprio come il Pangalli che eccelleva in quell’opra. Ebbene, con le due interlocutrici spiritali egli aveva raggiunto un grado di simpatia e di scioltezza quale mai e mai con alcun essere vivente aveva esperito prima.
E questo fatto gli metteva in corpo una voglia pruriginosa di rivivere quei momenti di gloria con il suscitare un altro di quegli spiriti – come li chiamava lui – che – e questa era una sua fisima – nell’eternità dovevano annoiarsi assai per essere così desiderosi di venir a ciarlare con un limitato e mortale umano.
Eppure più ci pensava più gli veniva voglia.
Tentò in tutti i modi di contrastare quel pensiero. Cercò di dimenticare la scatolina e le buste ma esse si facevano via via più vivide e gli parve addirittura a un tratto che una voce sottile gli lambisse gli auricoli e con un sospiro lo pregasse di liberarla, lei, la voce o meglio la proprietaria della voce, perché così potesse venire a parlargli e a sostenere sì piacevole conversazione. Egli immaginò subito che le due spiritesse fossero andate in giro nel lor mondo a fare gli elogi di lui e che adesso vi fosse una cospicua fila di esseri umbratili così vogliosi di incontrarlo da non esitare a prendersi a pugni.
«Tanto son tutti pugni di niente» si disse ed emise una risata stridula, nervosa. Troppo artificiale per far credere che fosse vera.
Si sedette sopra la poltrona testimone di tante veglie sonnacchiose trascorse ad aspettare che la piccola morte del sonno ghermisse le sue membra per trasportarlo nel limbo senza tempo a lui necessario e salutifero. Ma questa volta le ciglia non si chiudevano nel saporoso immergersi in quel mare di nulla: no, egli, ben sveglio, pur cercando una forma di distrazione in pensieri di varia natura o in rilassamenti di mente che avrebbero dovuto conducere a un girovagare soporifero, finiva per riandare pur sempre là, dietro le ante dell’armario, dove una ben nota scatola conteneva ben desiderate bustine colme di presenza, se pur effimera. Perso in quel deliquio semicosciente che sembra allontanare le cose del vero per distorcere il sentire in un mondo del tutto pieno di fantasticherie assai sovente consolanti e attraenti, il Bìccheri vedeva se stesso alzarsi, strascicare le pantofole sul pavimento di graniglia fredda, grigia per come appariva alla sparuta luminaria della sua candela, frugare entro il ventre buio del mobile ove avea nascosto il prezioso elisire di compagnia, afferrare una delle bustine e versarne il contenuto nella caraffa e dipoi… a questo punto diverse ipotesi si squadernavano tutte nella furia obnubilata di quella fantasiaccia che lo rodeva. Che cosa immaginava il Bìcchieri?
Egli vedeva contorni di fanciulle procaci come fumi colorati che s’accostavano a lui con gentile lascivia, come mai nessuna esponente del bel sesso lo aveva accostato nella sua vita, avendolo, in genere, esse guardato assai dall’alto in basso considerandolo per lo più un miserabile tapino con la fregola della tirchieria, insomma tutto il contrario di quel che si chiede a un amante che dee compensar la sua insipienza o la sua bruttezza con l’almeno spender tutto quel denaro necessario a soddisfare i capricci delle predette avide prede. Quando vieppiù il suo immaginare prese una piega così simile alla realtà da ghermirlo quasi in quelle parti in cui da ormai lungo tempo più niente sentiva se non gelo e aridezza, e tale cattura la sentiva così forte e così ardente da fargli spargere per l’intorno lamentevoli sospiri, egli si ridestò improvvisamente alla realtà con fiato ancora corto e senza più esitare realizzò quello che prima avea soltanto fantasimato nel suo interiore.
Vide se stesso andare all’armario, prendere la scatolina con le buste e cernere alla luce incerta quella che gli pareva dovesse fornirgli al meglio la compagnia della notte.
Dipoi, sollennemente, con fare metodico riempì la brocca, versò la polverina, scoprendola rossa, poi ciancolando tornò a sedersi sulla sua poltronaccia per attendere il risultato dell’operazione.
Mentre l’acqua ribbolliva e fumigava gli parve di notare alcunché di differente ché il frizzare del liquido tendesse ad emettere un ruggito, piuttosto che modulare avvenenti verba rivolte a lui.
Stupito, e anche un poco intimorito, si alzò tremante dal suo sedile e si accostò per intendere meglio quel che il borbottio ostacolato dal fervere del liquore gli lasciava appena appena intendere.
E fu così che improvvisamente, quando egli era a poco meno di un tiro di naso dall’orlo della caraffa, fuoriusciron, da tutto quel fumigare, due artigli orrendamente squamati posti al termine di braccia rinsecchite ma mobili, così mobili e svelte che lo afferrarono per la collottola e lo sollevarono letteralmente da terra. Obnubilato dallo spavento il Biccheri non fece neanche a tempo di scansarsi e si ritrovò sospeso a mezz’aria su quello che gli parve improvvisamente un orrendo stagno di fuoco perfettamente configurato entro il liquido della caraffa, il cui orlo si era allargato mostruosamente e dava a intendere essere divenuta una caverna di immani proporzioni contenuta perfettamente entro le pareti di vetro di cui era formata.
«Un altro grullo c’è cascato» disse una voce soave, di femminili toni, sussurratagli alle orecchie mentr’egli stava pencolando e scalciando – per quel che poteva – nel patetico tentativo di divincolarsi da quella stretta potente.
Egli si guardò intorno cercando il modo di conciliare quell’orrenda visione che lo riempiva di terrore con i soavi accenti appena uditi.
La voce rise, argentina.
«O che avete da ridere?» chies’egli tremolando e guardandosi or qua or là intorno per cercare in quel fumo e in quel calore una forma cui appellarsi per essere lasciato posare a terra e riprendere la conversazione nel normale volgere delle cose, com’era sempre stato.
«Ho da ridere che siete un vecchio di ben poca scienzia per non aver imparato che l’unico rimedio alla solitudine, nel vostro caso, è la dipartita dalla terra» disse quella beffarda.
Il Bìccheri, pur in quella situazione così pericolante, si sentì montare la mosca al naso, ché lui e la nera falciatrice non andavano per niente di buon sangue l’uno con l’altra.
Fece un solenne gesto di corna e sbottò: «Da questa terra vi dipartirete voi mia cara. E adesso vi ordino di posarmi a terra perché questa sospensione mi sta facendo montare il mal di capo»
La voce rise vieppiù: «Sentiamo sentiamo, chi siete per dare degli ordini in codesta vostra posizione»
Egli si eresse, o meglio cercò di erigersi pur tutto stropicciato com’era, così appeso come un pollo, e disse: «Son colui che ha sborsato fior di quattrini per codesta polveraccia che non funziona»
«Non funziona?» tuonò la voce, diventando di colpo grossa e minacciosa «Funziona eccome mio caro»
«Balle» stiracchiò il Bìccheri «Io ho solo sentito voci sospirose mentre mi aspettavo qualcosa di più solido. Il tutto fa pensare a un trucchetto da illusionista d’avanspettacolo» disse simulando delusione e disprezzo.
Gli artigli lo lasciarono cadere a terra e si ritrassero nel barattolo. Dipoi tronò un’esplosione che mandò in frantumi la vetrinetta della credenza ov’erano custoditi i quattro cristalli ch’egli conservava dai suoi genitori defunti, un vecchio servizio di nozze decimato dall’uso.
Ed ecco apparire, una forma in un baluginìo di nebbie e di colori slanciata e avvenente di donna che si materializzò con uno sconquasso talmente grande da mandarlo a gambe levate di contro alla parete e lasciarlo così, pesto, contro il muro come una marionetta senza fili.
La donna chiarificò i suoi contorni fino a comparire come bella d’una bellezza mai vista. I suoi occhi incontrarono il Bìccheri e lo regalarono d’un grande sorriso, il più radioso che mai si fosse visto.
Egli, confuso e terrorizzato non riusciva più a mantenere le sue grand’arie e fece la sua magra figura ricambiando quell’ardenza di sguardo con una smorfia da miracolato che prevedeva la bocca aperta e la mascella cascante. La donna rise nuovamente, si avvicinò a lui e con un dito che lasciava una traccia ardente sulla pelle, gli ripassò il contorno del volto.
Il Bìccheri cercò di rialzarsi ma l’impeto della botta che avea preso lo inchiodava al pavimento. Allora quella gli disse: «Vorresti ancora un po’ di giovinezza?»
Il Bìccheri non rispose con parole ma fece solo un sì del volto e quella gli soffiò in faccia.
Improvvisamente l’uomo, guardandosi le mani vide una strana evoluzione: le sue dite deformate dall’artrite iniziarono ad assottigliarsi e a raddrizzarsi, la pelle delle braccia da cascante divenne liscia, i dolori che lo soffocavano si attenuarono per abbandonarlo del tutto, e la schiena si raddrizzò in una sensazione di benessere che egli aveva ormai dimenticato da molti anni. Il Bìccheri si tirò improvvisamente su da solo con una certa agilità e cercò senza quasi accorgersene uno specchio. Quel che la lastra di vetro gli restituì lo lasciò senza fiato. Lì davanti a lui c’era un giovanotto, niente affatto male che egli riconobbe essere il sé di tanti anni prima, così tanti che egli lo aveva dimenticato. Ma con il ritorno della giovinezza che l’essere gli avea donato per qualche istante per probabilmente poi riprenderselo senza tanti complimenti, gli soffiò un’improvvisa lucidità di mente.
Senza quasi pensarci prese una statuetta dal tavolinetto della compianta madre ch’egli, per non buttarlo, avea sistemato quasi sotto lo specchio. Il soprammobile nella fattispecie consisteva d’una tartaruga, dono di qualche viaggiatore di tempi andati, con sopra un globo, il tutto di pietra verde.
Egli dunque la prese e istintivamente la scagliò contro la caraffa. L’impatto con il vaso di vetro sul tavolo principale della spoglia stanza, ebbe l’effetto dapprima di romperla in mille cocci e quindi di versare per tutto l’intorno l’acqua che essa conteneva.
Con un urlo strozzato, la donna inizio a deformarsi e a svanire: mentre la nebbia di cui era composta si sfaldava, per un istante al giovane Bìccheri parve di vedere le fattezze d’un mostro orrendo che si divincolava in una smorfia di pura, delusa malvagità. Dipoi con un altro botto orrendo tutto parve implodere: il ragazzo fu scagliato nuovamente contro una parete prima che quell’artiglio di fumo proveniente dal centro del vaso riuscisse a prenderlo e perdette conoscenza.
Quando si svegliò a giorno inoltrato nella stanza c’era una gran confusione. Tutti i mobili erano sfondati o rovesciati e sul pavimento c’erano sparse le poche cose che essi contenevano, completamente in frantumi.
Il Bìccheri prima di muoversi provò ad ascoltare il proprio corpo come faceva ogni mattina prima d’alzarsi dal letto. Con soddisfazione sentì che nulla era cambiato dalla sera precedente.
Non c’era più uno specchio in cui guardarsi, ma egli sentì che il ciuffo di capelli bruni intravvisto la sera prima c’era ancora come ancora c’era la vigoria di un corpo giovane, adolescente. Sorrise: ringraziò mentalmente quella vecchia impostora della Chirò e si complimentò con se stesso per la bella mossa che gli era venuta in mente.
Percorse la casa, raccolse quel che gli serviva in una valigia poi, sull’uscio, si inchinò brevemente per salutare il nido di squallore che lo aveva ospitato sin allora.
Una nuova vita stava iniziando per lui: un seconda possibilità, un fresco orizzonte. Ben deciso a non commettere più gli errori che gli erano costati sì tanto nella sua primiera e ormai precedente esistenza, uscì di casa e si incamminò con la sua valigia per seguire nuovi sentieri ripieni di speranza.