«Che cosa fai Mark?»
«Niente mamma»
«Forse potresti portarmi giù il sapone»
«Arrivo mamma»
Laggiù, la forsizia nel minuscolo giardino era fiorita e aveva i rami incurvati per quel peso colorato.
Mark scese lentamente i gradini della scala a occhi chiusi. Amava quel gioco. Con la punta delle calze sentiva il bordo dei gradini e indovinava la discesa senza cadere. Più velocemente possibile. Quando arrivò al pianerottolo della scala riaprì gli occhi e sorrise guardandosi allo specchio.
Nella stireria la mamma aveva immerso i pullover nell’acqua tiepida.
«Bisogna fare in fretta, altrimenti infeltriranno» disse prendendo il sapone che Mark le porgeva.
«Posso tornare di sopra?» chiese il ragazzino.
«Certo, tesoro» disse la mamma sorridendo.
Mark rimase lì a guardarla mentre era china sul lavatoio e sfregava la lana con dolcezza.
Si riscosse e tornò alla finestra della sua camera, al piano superiore.
Il signor Brown stava facendo gemere il violino nella stanza della casa che confinava con la loro.
Si affacciò appoggiando i palmi delle mani allo stipite. Avrebbe voluto guardare il cielo ma non poteva distendersi con la testa all’infuori, così si accontentò di appoggiare la guancia sul dorso delle mani.
La giornata si stava piacevolmente prolungando: il sole sembrava più pigro del solito e non si affrettava al tramonto. Aveva ancora qualche ora per fare i compiti.
Con un sospiro cercò di alzarsi per andare alla sua minuscola scrivania, un tavolaccio di legno su quattro gambe più sottili del dovuto. Ma la faccia si rifiutò di obbedire.
Mentre era lì, pian piano la luce si riempiva di pensieri. Non erano tutti decifrabili, alcuni erano decisamente ostici. Si disegnavano in quello spazio luminoso che si accorciava sempre di più tra il sole e l’orizzonte.
“Di qua non si vede l’orizzonte” pensò Mark e si alzò per controllare se, un poco più in alto, si fosse potuta scorgere la linea del mare. Ma i tetti delle case sovrastavano tutto. Erano grigi e fuligginosi, con strisciate nere sulle cimase, lasciate dalla pioggia.
Mark si afflosciò nuovamente sul davanzale.
«Tesoro, che cosa stai facendo?» la voce proveniva, tranquilla, dal basso.
«Sto incominciando a fare i compiti» disse Mark, cercando di convincersi che l’avrebbe fatto. Tecnicamente non era una menzogna. Non aveva detto “Sto facendo i compiti”. Cercò il filo dei pensieri che si era interrotto e riprese a seguirlo. “Ancora dieci minuti” disse “poi comincio davvero”.
Era così difficile fare i compiti in giornate come quella. Scese pian piano la scala per andare in cucina.
«Ti ho preparato la crema in una tazza. È nel frigorifero» disse la voce dalla stireria.
Mark entrò in cucina e posò la tazza della crema sul tavolo, dopo aver chiuso il portello del frigorifero. Stette lì a guardarla, trasognato. Immerse un dito nel composto spumoso e lo succhiò. Come sarebbe stato fare il cuoco da grande? Avrebbe potuto cucinare pranzi e cene speciali per tutti. Avrebbe avuto alcuni piatti speciali e segreti. Come la crema. Si sarebbe fatto dare la ricetta della mamma. Era una specie di tradizione di famiglia: passava di madre in figlia. Ma lui non aveva sorelle femmine. Quindi sarebbe toccato a lui conoscere il segreto, quando fosse venuta l’ora.
Quando la tazza fu vuota Mark risalì lentamente la scala a occhi chiusi. Anche questa volta non successe nulla e si congratulò con se stesso per la sua abilità.
«Perché la nostra scala ha diciassette gradini?» chiese, quando si trovò sul pianerottolo che dava sulla stireria.
«Oh, Signore, non lo so» disse sua madre «L’abbiamo trovata così quando siamo venuti ad abitare qui»
«Anche le altre case hanno diciassette gradini?» chiese Mark.
La madre fece una risatina: «Se proprio vuoi saperlo, quando andremo dalla signora Brown potrai chiederle se te li fa contare»
«Oh, non è niente. Ero solo curioso»
La camera dove dormiva, nella parte alta della casa, era piccola ed era stata ricavata dal sottotetto.
«Qui starai benone» gli aveva detto suo padre. Aveva spazzato via le ragnatele e la polvere, una rinfrescata di tinteggiatura, una parete in gesso che spezzava la vastità del locale e la porta proprio vicino alla branda che sarebbe diventata il suo letto.
«È bellissima» aveva detto Mark.
La cosa che gli piaceva di più era la finestra. Sporgeva dal tetto in un abbaino e lì avevano messo il divano vecchio del salotto che non veniva più usato. Così lui poteva inginocchiarsi e sporgersi fuori per guardare sotto. L’abbaino era proprio al confine della soffitta con il sottotetto della casa dei Brown e anche il signor Brown violinista era stato cacciato là in alto, proprio come lui. Così in quella posizione privilegiata Mark poteva vedere in cortile e sulla strada. E in più poteva sentire i miagolii al violino del vecchio vicino di casa.
Si avvicinò alla scrivania, piena di giocattoli fabbricati da lui stesso. Prese il carrettino fatto con una scatola di sardine e legato a un cavallo ritagliato nel cartone e lo mise sullo scaffale. Sgombrò il ripiano e aprì il quaderno. Non quello dei compiti. Quello dove scriveva i suoi pensieri. Era un quaderno segreto, ben camuffato insieme agli altri di scuola.
In quelle pagine annotava le domande che gli venivano in mente. Mark aveva da poco deciso di fare collezione di domande.
Arrivò all’ultima pagina e scrisse: “Perchè le scale hanno di solito diciassette gradini?”
Poi lo richiuse e lo lanciò sul letto.
Adesso poteva fare i compiti.
Poi gli venne in mente un’altra domanda.
Si alzò e andò a riprenderlo. Lo spazio sotto quella che aveva scritto era un po’ troppo piccolo. Mark lasciava sempre qualche riga bianca sotto ogni domanda. Quello non era il quaderno delle risposte, ma pensava che il giorno in cui gli fosse venuta una risposta qualsiasi a qualsiasi domanda sarebbe stato bello poterla scrivere proprio sotto, senza dover fare asterischi o rimandi.
Decise di scrivere la nuova domanda su una pagina nuova.
Studiò a lungo la formulazione da dare a quell’interrogativo che gli era venuto in mente.
Poi si decise: «Perché le cose non rimangono come sono? Perché cambiano sempre?»
Il rumore dello sciacquìo dei pullover gli fece alzare gli occhi.
Forse un giorno la sua stanza sarebbe tornata ad essere una soffitta, quando lui se ne fosse andato per viaggiare qua e là per il mondo.
Una soffitta in penombra, piena di polvere e di ragnatele. Sarebbe rimasto solo qualche segno della sua presenza lì. “Chissà se le persone lasciano qualche traccia nelle cose che toccano?”
Questo pensiero gli capitò in mente all’improvviso. Acuì i sensi per cercare qualche traccia delle persone che avevano abitato la casa prima di loro, ma non riuscì a sentire nulla.
“Forse è molto difficile lasciare dei segni” si disse. O forse dovevano essere briciole di presenza legate a pensieri molto grandi.
“Potrebbero anche essere dei sogni che non si sono realizzati”.
Mark si guardò intorno, con la sensazione di essere a un passo dal cogliere nell’aria qualcosa.
“Sogni molto grandi” ribadì, chiudendo gli occhi per non farsi distrarre dalle cose.
Poi gli venne in mente che, se avesse voluto essere ricordato avrebbe dovuto avere anche lui un sogno grande, molto grande. O almeno qualche pensiero importante.
Esaminò tutta la gamma dei suoi pensieri e si rese conto che erano piccoli, molto piccoli.
«Forse dovrei crescere» disse a se stesso a bassa voce.
«Forse però sarà troppo tardi» pensò «perché allora me ne sarò già andato».
Scosse la testa e riaprì il quaderno per andare su un’altra pagina bianca e scrivere: “Chissà se le persone lasciano qualche traccia nelle cose che toccano?”
Poi chiuse il quaderno. Lo mise sotto il libro e attaccò con i problemi di geometria.