Da “I dieci racconti dell’aria”
«Non c’è alcuna velleità» disse Zandrus «niente di niente».
Si girò e guardò le ciminiere dalla finestra. Il condizionatore ronzava secco e il caldo appiccicoso rimaneva fuori dalla stanza. Niente di speciale, intendiamoci. Cioè, io avevo visto stanze migliori di quella. Soprattutto in tema di Compagnia dei sette Stati. Cioè, rispetto alla fama e al potere reale della Compagnia intendo dire. Una cosa enorme, il sogno di tutti gli uomini, proverbi a non finire.
IO non risposi subito. Presi tempo. Bisognava riflettere. Conoscevo la mentalità dei funzionari della Compagnia. Era obliqua, tortuosa. Non si poteva mai dire la verità, o, peggio ancora, parlare apertamente. Le leggi della Compagnia erano così. Io le avevo studiate e capivo. Non sapevo se Zandrus sapesse che io sapevo. Tutto sommato stava al gioco.
Non mi scomposi e risposi gelidamente: «Ho capito, ho capito.»
Mi rendevo vagamente conto che tutto sarebbe dipeso dalla prossima risposta. Zandrus rimase indifferente. Accennò appena un movimento del muscolo della palpebra destra e poi sorrise.
«Siete astuto. Astuto quanto basta, direi. Rispetto ai nostri scopi, s’intende. Credo che darò il mio parere favorevole» e mi scrutò in modo sinistro.
Ecco che cosa stava aspettando. Un moto emozionale. Non dovevo muovere un solo muscolo. Cercai di sentirmi il volto rigido come l’acciaio. Dovetti stirare un ben misero sorriso per generare in lui tutta quell’euforia. Era una prova, lo sapevo. Una maledetta prova anche quella. La più dura. Sentii il suo sguardo addestrato cercare un segno d’emozione. Cercai di sentirmi il volto d’acciaio, di ferro, di un qualsiasi metallo duro.
Zandrus strinse gli occhi e sorrise con malignità. Improvvisamente i nostri occhi si incrociarono. Io vidi in quello sguardo tutta la miseria dell’uomo decaduto.
Lui vide in me tutta la bramosia del giovane alla conquista del potere. Sorrise stancamente questa volta e io ebbi la sensazione di non avercela fatta.
(09/06/2001)