Il tratto di strada che separava Monsalice da Sommariva del Ritano misurava ventisette chilometri e trecentoquarantadue metri, se si contava anche la deviazione sulla Via Ventiquattro Maggio operata a causa di un cratere escavato per la riparazione del tubo dell’acquedotto. Detto cantiere era lì da tre anni e sul selciato d’asfalto erano ormai cresciuti gramigne e logli in quantità che aveano avuto tempo di seccare e ricrescere nuovamente, stagione dopo stagione.
Ventisette chilometri e trecentoquarantdue metri, se l’andava bene che c’era assenza di traffico urbano e d’animale (ché in quella contrada si poteano ancora vedere mandre di pecore e montoni vagare di prato in vigna guardati da qualche smagrito ragazzetto con le cuffie ai padiglioni auricolari) il ragionier Smazzanti li percorreva in diciannove minuti e quaranta secondi esatti se riesciva a mantenere la, spesso, non mantenibile velocità di cinquanta chilometri orari circa, considerando naturalmente le curve, gli intoppi, i diritti di precedenza e le vacche che stazionavano sul percorso a brucare qualche cespuglio di rumex acetosa altrimenti detta acetosa o salsarella o zanzora o erbabrusca o salina, vegetale assai di gradimento per gli armenti che bighellonano ai lati delle strade.
Ora egli, lo Smazzanti appunto, ragioniere della filiale assicurativa T. Ruffini Insurance (la T stava per Teresio, il commenda panciuto, paterno capo dell’azienda, che stazionava in perenne dormiveglia in un gigantesco locale adibito ad ufficio, pieno di baobab d’appartamento, mentre gli schiavi sudavano sotto il peso delle pratiche in stambugi bui e puteolenti di polvere e serrato) era al decimo minuto di percorrenza e stava sorpassando il torrente Prella sull’angusto ponte che lo sovrastava. Rispondeva al telefono mobile di cui era stato dotato dalla sua aulica consorte in virtù del fatto che avea da affibbiargli innumerevoli e astruse pratiche di spiccio di commissioni o di arzigogolio di passaggi: dal sarto al veterinario, dal cioccolataio al ferramenta, dal fioraio al parroco, dalla farmacia al supermercato.
«Certo, cara, ricordo» Diceva mentre cercava d’evitare il furgone delle mozzarelle che trascorreva di lì ogni giorno esattamente a quell’ora e, così dicendo, sbirciava la faraonica lista di commissioni, «Prima dalla sarta, poi in lavanderia e poi devo consegnare il regalo alla zia Teresa… che cosa?» una minilepre attraversò la strada ed egli rallentò la velocità con il pedale del freno, mandando a sfasciarsi sul cruscotto montagne di carte e fascicoli c’avea dovuto portarsi a casa per non aver finito il disbrigo delle carte che gli erano state affidate la mattina.
« Tra il panettiere e l’ufficio delle prenotazioni devo anche passare da tuo padre? Perché? Deve rinnovare la ricetta delle pastigliette della pressione? Va bene, cara. Passerò anche da lui. Ci sentiamo più tardi cara…»
Imprecò contro l’animale che gli aveva fatto perdere del tempo, seppur poco e proseguì la strada cercando di rilassarsi.
Alla curva del Ritano il mobile squillò nuovamente.
«Pronto? Ciro? Sei tu?»
L’era il figlio che studiava in città. «Come? Dovrei passare a prenderti? Devi uscire stasera e non puoi fare tardi? Hai finito appena la partita a calcetto… Avrei un mucchio di commissioni… ho capito, ho capito, non scaldarti. Lo so che studi come un animale e devi distrarti… va bene cercherò di fare in fretta»
Arrivava adesso il tratto che più lo conciliava: un pioppeto costeggiava la strada e in quelle forme soverchie di fogliame, ei si specchiava nel sonoro cicaleccio delle fronde tremule.. Perché, bisogna capire, il ragionier Smazzanti era, a suo modo un sognatore. Così, curvato nella realtà esterna quanto adamantino e fiero in quella interna. Egli aveva fatto del suo pazientare una ragion di vita che considerava nobile e virtuosa. La sua persona si curvava a poco a poco, sovrastato da tutto quel gran mare del richiedere, richiedere, richiedere e per parte sua del rinunciare, rinunciare, rinunciare. Eppure egli si sentiva appagato da questa soppressione degli istinti suoi, ché il grande suo timore era quello di vedere il suo ‘ego’, che egli considerava assolutamente un nulla, ergersi sul colle dell’arroganza e diniegare ogni richiesta, come, lo ammetteva con fastidio e angoscia, egli avea spesso desiderio di fare.
Il mobile trillò nuovamente. Il ragioniere dovette arrestarsi sul ciglio della strada prima di rispondere: dovette far passare un trattore gigantico, una specie di esoscheletro lavorativo grande quanto una montagna condotto dal Guidotti, un prepotentaccio che, negandogli l’elementare diritto del passare lo aveva costretto più volte a fermarsi per fargli strada, lui che conduceva una vetturetta angusta agevolmente scivolante al fianco del mostro senza l’arreco di alcun fastidio. Il Guidotti come lo vide, da dentro quella cabinona di vetro sospesa a quattro metri d’altezza iniziò a gesticolare nella sua direzione con l’aria più minacciosa del mondo, e lo Smazzanti si fece piccolo piccolo al volante, diventando ancora più esile e minuto di quanto non fosse nella visura reale.
Quando il bestione fu passato, afferrò sul sedile il mobile che trillava sempre più rabbiosamente.
«Oh, Carlotta…» era la figlia «Non potevo…. scusa…. c’era un trattore…. non riuscivo a rispondere subito… dovevo…. va bene…. va bene… che cosa devo fare? Dalla Marina, la tua amica? un vestito per stasera? É proprio necessario? Sì, sì…. non scaldarti…. ho capito…. ci vado, ci vado… allungherò un po’…. Non importa. Voi cominciate pure a cenare…. quando arrivo, arrivo..» e, chiuso con un sospiro il mattoncino tecnologico, lo posò con delicatezza sul sedile per evitare che cadesse e si rompesse…. dopotutto ciò gli era indispensabile.
La strada stava per uscire dal pioppeto: mancavano ancora quattro minuti al raggiungimento della piazza antistante la sua magione da cui si sarebbe dovuto peraltro subito dipartire per espletare tutto quel po’ po’ di incarichi pendente sul suo capo, quando improvvisamente il suo sguardo fu attratto da qualcosa poco più in là sul ciglio della strada.
Egli adocchiò l’orologio da polso, consunto e ossidato dalle incrostazioni di sudore: era tardi. Poi, mentre i suoi occhi cercavano ancora quel bagliore giallo nella radura del bosco incipiente, ultima vista prima dell’ingresso in paese, incontrò sullo specchietto retrovisore le sue pupille riflesse.
Fu un lampo ed egli si vide per un solo minutissimo istante come era: due cerchi scuri intorno alle palpebre, l’acquosità delle iridi, un che di floscio che andava propagandosi sulle guance che arrochivano nella pelle e divenivano stoppose come un albero in carenza di fluidi.
Non conobbe bene il motivo ma improvvisamente partì dal suo cervello un comando che attraversò in qualche millisecondo le connessioni alquanto annebbiate dei nervi fino ai muscoli della gamba e del piede. Costoro, quasi come indipendenti entità, si contrassero, pigiarono con violenza sul pedale del freno e provocarono l’arresto immediato e rapinoso del veicolo. L’autista dietro di lui lo schivò sorpassandolo e caricandolo di improperi per quella brusca frenata, ma egli, lo Smazzanti non lo udì neppure perché nel suo raggio visivo esisteva ora solo quel bagliore dorato indovinato in mezzo al bosco.
Nell’imbrunire dell’incipiente primavera, scese dalla vetturetta e si addentrò, con l’erba che gli ammolliva le scarpe, verso una radura entro la quale scorreva un minuscolo ruscello. In quel punto non vi erano lordure e l’acqua crosciava con un suono quasi argentino.
E finalmente le vide.
Erano lì, abbarbicate sotto la protuberanza legnosa d’un tronco, a ciuffi, a mazzi, ad aiole naturali, non punto sfiorate da mano d’umano.
«Le primule» egli disse.
Attraversò il rigagnolo inzuppandosi i piedi, ma non gli importava più, e raggiunse la riva opposta, si chinò e si fermò a contemplare quella delicata rinascita che spiccava nel grigiore del pietrisco. E sentì un brivido partire dagli occhi e scendere per la schiena giù giù lungo la sua provata colonna vertebrale. Era una sensazione di fresco che si dilatava nel crocchiare dell’acqua e nell’umidore dell’erba e avea come epicentro quell’areola di giallo vivo che pareva un sole trionfante.
«Le primule» ripeteva a se stesso, all’infinito, senza stancarsi «Le primule. Le primule!» E innaffiò quegli spruzzi vegetali luminosi che erano nati per nessuno e che si erano improvvisamente donati a lui e gli avevano riempito gli orizzonti, con i lucciconi di tutta la sua fatica, senza nulla chiedere e senza nulla dover dare.