La barca arriva scoppiettando nella rada.
L’uomo che la guida è abbronzato, una corta barba bianca.
Il movimento è misurato, lento.
Assente il vento, ma il mare è increspato da una brezza lontana. Forse viene dall’orizzonte, ma non riesce a superare il circolo di brevi monti che circonda la baia.
La barca dondola girando lentamente in tondo, fin quando l’uomo non getta una minuscola ancora che aderisce sul fondo.
I gabbiani disegnano cerchi rotondi sulla verticale della barca, in attesa. Stridono, strappandosi lo spazio con quelle urla.
L’uomo alza lo sguardo riparandosi con il palmo della mano. Il sole è troppo brillante ma la cabina che racchiude il timone getta sul ponte di assi una minuta ombra. Si guarda intorno, poi da una botola estrae una cassetta, una canna da pesca smontata e una seggiola pieghevole.
Si siede e monta la canna, poi dalla cassetta prende un’esca, getta la lenza e appoggia la canna a un cavalletto saldato a mano. Si appoggia allo schienale della seggiola, guarda in alto passandosi una mano sulla testa quasi calva, quindi si sistema un berrettaccio bisunto da marinaio tutto stracciato.
E infine aspetta.
Aspetta.
Aspetta.
Non solo che qualche pesce particolarmente ingenuo abbocchi. La sua è un’attesa più profonda, quasi ancestrale. Lo si vede chiaramente dalla misurata essenzialità dei movimenti. Accordata con il ritmo del mare. Come un respiro profondo che fa penetrare aria fin nei più recessi alveoli dei polmoni, per non sprecarne nemmeno un atomo.
La barca beccheggia con leggerezza e il pescatore accompagna quel movimento con un pareggiamento quasi infinitesimale ma spontaneo del suo corpo. In effetti, a ben guardare, pur in quell’apparente dormiveglia nel quale viene a trovarsi, il suo capo è sempre nello stesso punto dello spazio, mentre tutto gli si muove intorno. È quello che desidererei nella mia vita: mantenere un punto fisso mentre il turbine mi scivola addosso e cerca di portarmi di qua e di là senza un progetto preciso che non sia qualcosa di caotico.
Prima di venire qui a fare questa breve vacanza, Magda, la mia segretaria un giorno mi ha guardato perplessa. Le ho chiesto perché mi guardasse così. Lei ha risposto: «Oh, nulla, nulla, presidente» e poi se n’è andata alla sua scrivania nella sala d’attesa del mio ufficio.
Nel caos delle telefonate, delle cose che non funzionano mai, dei problemi da risolvere e del timone da tenere diritto nel mare procelloso delle decisioni che bisogna prendere quasi in ogni istante, quello sguardo mi ha fatto fremere e fermare.
Immaginate un freno a mano tirato mentre si sta correndo senza nessun limite su una strada.
Perché?
Non lo so. In genere non mi accorgo quasi dei miei dipendenti, neanche di quelli che mi stanno vicino tutti i giorni, né di quelli che tormento con le mie ire o la mia prepotenza.
È vero. Alcuni non li posso soffrire. Dario per esempio. Ha paura di me e tenta di essere più ‘me’ di me stesso, interpretando il mio padron-pensiero per farmi contento.
O per farmi stare buono.
O, meglio ancora, per non avere guai.
Anche quando sa che ho torto o che sto facendo una carognata.
Nessuno che me lo dica.
Ma quello sguardo di Magda…
La segretaria perfetta. Efficiente, silenziosa, obbediente quel che basta e intraprendente quel che serve. Ha un modo felpato di esercitare il suo potere ed è l’unica, credo, in grado di contraddirmi senza suscitare le mie ire. Una donna decisa insomma.
Guardarmi a quel modo.
Avevo appena comunicato alla stampa la chiusura di un trattato… o meglio di un contratto mascherato. Pochi sapevano che cosa avrebbe comportato quella cosa…
Se non fossi abituato a non pensare alle conseguenze delle mie decisioni…
Non c’era disprezzo in quello sguardo. Solo una constatazione.
Ed è quella che mi ha ferito in modo irrecuperabile.
Il pescatore non si è ancora mosso. È nella stessa posizione da quasi un’ora. Non capisco se sia addormentato o morto. Persino i gabbiani adesso si posano sulla sua barca, come se lui non ci fosse.
Che cosa grandiosa essere nel mondo come se uno non ci fosse.
Quando hanno scoperto che cosa sarebbe successo nella zona dell’Illontana me l’hanno giurata. Per fortuna erano in pochi e io sono troppo potente per preoccuparmi delle loro piccole piaggerie.
Gli ho rovesciato addosso un fiume di denaro – l’infinitesima parte di quello che mi sono meritato per aver chiuso l’accordo e si sono subito calmati. Anche se erano rimasti fregati per bene, loro e la loro terra.
Il denaro vale anche la perdita del cuore.
In fondo, questo l’ho imparato, un posto equivale a un altro. E se non puoi più stare nel posto dove hai messo le tue radici peggio per te. Era meglio se le radici addirittura non te le creavi, come è stato per me. Libero apolide, senza remore o rimpianti. Figlio del mondo e del dinamismo.
E così ho messo a posto anche quello. In fondo questa è un’altra delle cose che ho imparato: a saper aspettare si mette a posto tutto, quasi da solo. Basta non fomentare. Non andare troppo per il sottile.
Ma Magda…
in fondo non è che non sapessi che covavo una serpe in seno.
Lei è sempre stata così distaccata. Strano per una donna. In genere sono sempre lì che vogliono mettere la loro presenza su tutto. Forse è il loro dannato spirito materno.
Per fortuna mi sono guardato bene dall’avere figli. Così non devo pensare a eredità né sono costretto a pensare al futuro di quacun altro: se mi rompo il culo voglio farlo per me stesso e basta. E se riesco a diventare ancora un po’ più vecchio al punto da passare di stagione in modo che mi liberino da tutta la responsabilità – che ci sta a fare un vecchio rincoglionito sulla plancia di comando? Direte voi. E avete ragione, perdio se l’avete – mi mangerò tutto quello che mi sono tirato su durante la mia vita, girando qua e là negli alberghi di lusso.
Non voglio neanche pensare a una casa, è una cosa così malinconica…. Tu sei lì che stai diventando decrepito e ti ritrovi triste, cominci solo più a pensare alla morte.
Nossignore, io voglio vivere fino alla fine, e spero di crepare improvvisamente, senza più un quattrino. Tutti gli avvoltoi che ti girano intorno rimangono fregati, come i gabbiani che giravano intorno alla barchetta.
Credo che il pescatore abbia solo buttato giù un filo senza esca o che quella che ha prelevato dalla cassetta sia un’esca finta… da quando lo osservo – e sono parecchi giorni ormai – non ha mai preso niente. Viene qui a pescare senza pescare.
Che cosa ridicola.
Ma che cosa saggia.
Perché in fondo chi di noi ha mai pescato qualcosa?
Ecco che ritorna lo sguardo di Magda.
Quello che mi aveva voluto dire era proprio questo: a me, che mi sentivo così furbo per aver concluso quella cosa, lei esattamente mi ha fatto intendere che non valeva niente, come non vale niente quello che sta facendo il mio amico pescatore.
Perché in fondo siamo tutti dei niente che si agitano su questa terra credendo di fare chissà che, mentre in realtà facciamo solo stupidaggini e cretinate senza senso.
Quindi tra me e il pescatore non c’è nessuna differenza.
Sì, forse a me intitoleranno, quando sarò crepato, una strada, scriveranno qualche libro, cercheranno di capire le ragioni del mio successo.
Ma tanto io non ci sarò più, che me ne frega?
Anche il pescatore non ci sarà più e anche lui se ne fregherà se nessuno va scavare nella sua vita per vedere se ha fatto qualcosa che conta agli occhi degli ingenui.
In fondo se dobbiamo proprio essere sinceri, quello che vale davvero l’ho capito da poco.
E potrà sembrare una cosa incredibile.
Quel che conterà, statemi bene a sentire, sarà quanto saremo stati lievi alla terra.
E più saremo stati lievi, meglio sarà. Meglio avremo adempiuto al nostro compito, che in fondo è quello di vivere e basta.
Il sole sta tramontando dietro la collina che delimita la cala.
I gabbiani si sono alzati lenti a volo e si sono allontanati indispettiti, perché fanno parte di quelli dinamici come me che urlano e battagliano per avere anche solo una piccola preda. E qui non c’è stato cibo per nessuno.
Lui invece niente. A un certo punto, quando la corona dei raggi si è abbassata nel colore indefinito delle dita di rosa – che non sono quelle dell’alba – si è improvvisamente scosso, come se fosse stato riportato alla vita e con la stessa lentezza con cui è arrivato, ha ritirato la lenza a cui non era attaccato nulla, come sempre, ha messo in moto e, scoppiettando il motore, ha fatto il giro della baia allontanandosi verso il mare aperto.
Anch’io mi sto alzando dalla mio sdraio in questi bagni faraonici da duecento dollari il giorno. E improvvisamente mi sento ridicolo.
Il mio mare e quello del pescatore è lo stesso, uguale il sole e il cielo.
E se fossi stato qualche metro più in là, al di là del recinto dove termina l’installazione balneare per ricchi nel quale vengo ogni giorno, là dove ci sono famiglie con bambini piccoli che giocano sul bagnasciuga, quale differenza ci sarebbe stata nel godere di questa meravigliosa giornata di sole?
Il cellulare trilla.
Nello schermo compare quel bidone sfondato di Dario. So perché mi chiama.
Ma questa volta la carognata la lascio a lui.