Storie della Fondazione per la Normalizzazione della Terra
«Rachmaninoff. Lo conosce, professore?» chiese Habelhas all’uomo seduto sulla poltroncina davanti alla sua scrivania.
Singh arrossì confuso e fece un cenno di diniego, del capo, come a scusarsi: «È che non ho avuto mai molto tempo…» farfugliò.
«Peccato» mormorò Habelhas, rassegnato «Non sa che cosa perde. Vede, la sua musica sacra ha un afflato straordinario, un’apertura verso la trascendenza… è una pecca grave per uno scienziato del suo calibro trascurare anche altri aspetti della cultura come la musica, l’arte…»
Singh annuì acquiescente. Le sue mani tormentavano nervosamente l’imponente faldone che aveva con sé sulla poltrona. Habelhas lo guardò in silenzio, come se aspettasse qualcosa da lui. La musica fluiva eterea da casse nascoste nell’arredamento essenziale ma lussuoso che caratterizzava quell’ufficio. Singh sentiva salire la preoccupazione: come avrebbe reagito? Ma soprattutto che cosa avrebbe dovuto aspettarsi lui dal capo della Fondazione?
Tutto si basava su una menzogna ormai palese che tuttavia veniva mantenuta in piedi con amabile protervia. Era chiarissimo che la ricerca sull’HR848 non serviva per guarire l’umanità dal suo male di sempre, la vecchiaia. O meglio, in una certa visione la guariva sì, perché le avrebbe impedito di viverla.
«Il compianto professor Van Gleb era un estimatore di Rachmaninoff. Ci siamo fermati più volte, proprio in questo ufficio ad ascoltare qualche esecuzione corale di cui, modestamente, sono il possessore. Per me è una vera e propria piccola mania. Poi commentavamo insieme e non ci trovavamo mai troppo d’accordo: lui era molto più, come dire, lasco nel giudizio. A volte un coro di modesta qualità lo affascinava. Io non mi sono mai lasciato ingannare invece: in fondo non sono un creativo come voi: il mio compito è amministrare e decidere. Una cosa molto più precisa ma anche arida non le pare?» disse Habelhas senza mutare espressione.
«Certamente. Io farei fatica a prendere decisioni che non riguardano precisamente la ricerca e i suoi procedimenti» disse Singh.
«E infatti non conviene che lei le prenda. C’è chi è deputato a fare questo. In fondo noi tutti abbiamo un ruolo nella società, in un’organizzazione. Il lattaio vende il latte e il politico fornisce un’intuizione alla società» fece convinto Habelhas «Guai se fosse il contrario».
«Certamente» ripeté Singh per nulla convinto.
Habelhas si alzò e si diresse verso una mensola dove erano appoggiate alcune bottiglie istoriate di cristallo. Versò il contenuto di una di queste in due bicchieri raffinati, un dito di liquido, poi li prese e ne offrì uno al suo ospite.
«Prosit» fece alzando leggermente il calice e ne gustò un sorso. Anche Singh, abbandonando per un istante il faldone prese in mano il bicchiere, lo portò all’altezza degli occhi e sorseggiò un filo di liquore.
«E pensare che sono già due anni dalla improvvisa scomparsa del professor Van Gleb. Quando ci ripenso non riesco a capacitarmene. Forse abbiamo un po’ forzato la mano per affrettare le ricerche… quando mi hanno detto che il suo cuore aveva ceduto, ho subito pensato a lei. E non mi sono sbagliato» disse Habelhas stirando un sorriso agre «Il lavoro che lei ha fatto sin qui è stato imponente, oltre che originale. È partito dalle intuizioni e dai risultati del professore ma li ha sviluppati in una modalità che oserei definire impressionante»
«Grazie» mormorò Singh. Il vecchio bastardo aveva l’aria così innocente da indurre per un istante il suo interlocutore a credere che Van Gleb fosse proprio morto d’infarto, come recitava la versione ufficiale della faccenda. Peccato che nel suo ufficio c’era lui quando la squadra di assassini era entrata. E lui aveva visto con i suoi occhi i killer agire e il professore accasciarsi sulla sedia colpito a morte dalle capsule di quei criminali. E adesso perché glielo ricordava? Forse perché il bastardo stava per fare la stessa cosa con lui, visto che ormai i risultati erano arrivati?
O forse era un avvertimento a non fare quel che aveva fatto Van Gleb? E se gli avesse chiesto ora della trasmutazione? Gliel’avrebbe concessa?
Singh decise di posporre la richiesta dopo avergli illustrato il piano di lavoro della fase finale.
Habelhas pareva non avere fretta così Singh si impose di calmarsi. Avrebbe preferito sbrigare tutto in fretta pur di non doversi trovare a lungo con quell’uomo viscido e spietato ma c’erano le convenienze da rispettare. Soprattutto le proprie convenienze: mostrare un atteggiamento tranquillo e disponibile in genere facilitava l’allungamento della propria vita, anche e soprattutto per i ruoli chiave che costituivano il cuore di un progetto della Fondazione. Di questo era consapevole il ricercatore così brillante da aver sostituito il suo maestro anzitempo.
Per questo annuì e tacque.
Habelhas vuotò il bicchiere, lo posò sulla mensola poi tornò a sedersi sulla scrivania.
«Avrò il piacere di ascoltare la sua relazione» disse freddamente dopo averlo scrutato per qualche istante.
Singh si rianimò: finalmente era arrivato il momento dell’esame.
Si schiarì la voce: «Se siete d’accordo potremmo fare il punto della situazione» disse umile. Con un gesto di condiscendenza il vecchio lo invitò a proseguire.
Singh si schiarì ulteriormente la voce, aprì il faldone, ne staccò un mazzo di fogli e lo depose sulla scrivania del capo. Questi prese il fascicolo e cominciò a sfogliarlo.
«Partiamo dalle condizioni: «Il virus in grado di… ehm ritardare la vecchiaia all’umanità deve essere: trasmissibile, latente, cronosensibile, resistente.
Come può vedere dopo infiniti tentativi siamo riusciti a ottenere un ceppo, l’HR848ω che sembra possedere tutti i requisiti necessari. È estremamente trasmissibile (se producesse una malattia potremmo definirlo estremamente contagioso), è latente perché si annida nei tessuti profondi di alcuni organi minori e quindi è molto difficilmente riconoscibile o rintracciabile»
«Quanto difficilmente?» chiese gelido Habelhas.
«Se non si sa dove e che cosa cercare è praticamente impossibile trovarlo» rispose Singh «Inoltre fin quando è latente ha un ciclo vitale ridottissimo e si riproduce con grande lentezza perché è in uno stato di inibizione causato dalla controproteina che abbiamo creato e che lei ben conosce. Salvo poi risvegliarsi e diventare estremamente attivo quando incontra l’attivatore, generato dalla cronosensibilità»
«Molto bene» disse Habelhas «E le altre due condizioni?»
«La cronosensibilità è stata la parte più complessa della nostra ricerca. Le condizioni di attivazione devono essere sicure e coinvolgono meccanismi vitali che conosciamo ancora poco. Ma le ricerche hanno gettato una luce importante su tali fattori e oggi possiamo dire che la scienza ne sa molto di più sull’argomento. Comunque abbiamo individuato due step biologici che sembrano caratterizzare le mutazioni legate all’incirca al sessantesimo anno di vita (dato che questo ci era stato richiesto) e su questo abbiamo lavorato, raggiungendo un grado di approssimazione di attivazione che sfiora quasi l’ora di nascita. È stata una faticaccia ma i risultati sono ormai assestati e definitivi. Noi siamo in grado di far agire il nostro virus esattamente allo scoccare del sessantesimo anno di vita, al netto delle variabili individuali in termine di risposte sierologiche ecc.» disse Singh con un certo orgoglio.
«Sono ammirato» disse Habelhas con un tono di voce incolore.
«E infine la resistenza: che è stato quasi un corollario, diciamo così, naturale al nostro lavoro perché fin da subito il virus mutato geneticamente in tal guisa è risultato resistente e implacabile nel suo processo riproduttivo»
«E quali effetti produce?» chiese Habelhas.
«È quello che dobbiamo decidere oggi. Noi possiamo attivare il virus e io posso anticiparle che avrei un’idea abbastanza precisa di ciò che dovrebbe fare per fermare i processi di invecchiamento…»
Habelhas riunì le punta delle dita vicino alla sua bocca e chiuse gli occhi.
«Qual è la morte migliore e senza sofferenza riservata a un essere umano dal punto di vista strettamente medico?» gli chiese improvvisamente a bruciapelo.
Singh divenne mortalmente pallido: «Morte?» balbettò.
«Beh, esiste anche un’etica della morte, non le pare? Nel passato spesso si optava per infliggere, ad esempio a un condannato, una morte che fosse il più dolorosa, procrastinata e spaventosa possibile. Ma si faceva così per punire qualcuno di una mancanza perpetrata a danno della società. E lo si faceva soprattutto per gli altri. Perché non osassero ripetere l’azione iniqua che era causa di tale atroce morte. Mi segue?» chiese Habelhas.
«N… no»
Habelhas sospirò, poi continuò come parlando a se stesso: «Spero che lei possa comprendere il mio ragionamento. In fondo vivere non è una mancanza e, in certe condizioni, non comporta nessun danno all’umanità. Ma quando ciò invece accade?»
«Non capisco quel che vuol dire…» mormorò esitante il giovane professore.
«Risponda alla mia domanda: un essere che è colpevole solo per il fatto di essere stato portato involontariamente alla vita, non lo possiamo considerare colpevole, giusto?»
«No, cioè sì… nel senso che non è colpevole» disse confuso Singh.
«Bene. Ecco le istruzioni per l’ultima parte del nostro lavoro. Questo richiede un piccolo e significativo cambiamento di prospettiva per lei e probabilmente una certa sua difficoltà nel gestire e nel coordinare quest’ultima fase di lavoro»
«Mi perdoni ma non riesco ancora a seguirla» disse ormai sospettoso il ricercatore.
«Mister Singh, io voglio che lei programmi il virus per far fare una morte il meno sofferente possibile a un uomo che abbia compiuto sessant’anni. Non voglio discutere con lei questioni etiche che sono già state sviscerate ed esaminate abbondantemente da fior di scienziati…»
Singh sorrise amaramente. «Dunque è questo lo scopo di tutto questo lavorare intorno alla cronosensibilità… il professor Van Gleb sapeva?»
«Il povero Van Gleb sapeva e aveva anche tentato di informarla. Non neghi: ovviamente, siamo a conoscenza di tutto»
Singh si lasciò andare sulla sedia e chiuse gli occhi: «È così. E ovviamente, devo informarla che nell’équipe lo sanno tutti» disse.
«Ovvio. Adesso però è necessaria una stretta. Vorrei delle indicazioni» disse Habelhas freddamente.
Singh si alzò dalla poltroncina e iniziò a passeggiare nervosamente nell’ufficio. La musica di Rachmaninoff continuava ad aleggiare in regioni eteree che sembravano contrastare pesantemente con il senso di oppressione nel quale, a disvelamento compiuto, Singh si sentiva.
Habelhas attendeva tranquillo alla scrivania.
«Si potrebbe, è un’ipotesi,» iniziò alla fine Singh «agire sulla distruzione selettiva delle connessioni sinaptiche. In un giorno o due si potrebbe avere una degenerazione significativa delle capacità cerebrali che alla fine coinvolgerebbe anche la gestione delle funzioni vitali. Lavorerei soprattutto sui circuiti che determinano la coscienza: in questo modo già dalle prime fasi della malattia ci sarebbe una sorta di anestetizzazione dell’individuo che potrebbe mettersi a dormire per non risvegliarsi più. Una morte indolore, rapida, senza effetti scenici»
Habelhas aveva ascoltato con estremo interesse.
«Avevo immaginato anch’io una cosa del genere, senza ovviamente essere a conoscenza dei processi clinici che una tale soluzione coinvolgerebbe. Non dobbiamo essere dei giustizieri: diciamo che potremmo considerarci come dei facilitatori della natura. Stabilire un limite temporale all’esistenza umana senza sofferenza mi pare un ragionevole compromesso etico. Lei che dice?»
Singh respirò a fondo: «Devo essere sincero?»
«Può esserlo»
«Mi pare una cosa del tutto contraria ai principi con i quali noi medici abbiamo regolato la nostra professione da millenni. Ma comprendo anche la ragione per cui questa scelta è stata fatta, anche se non la approvo. Sono semplicemente sconvolto. Anzi, mi sento sconvolto da tempo, non appena, assunta la direzione del progetto ho capito quale ne fosse l’obiettivo» disse Singh tutto d’un fiato.
«Dunque, anche se lei ha capito non ha abbandonato. Perché?» chiese Habelhas.
Singh si strinse nelle spalle: «La scienza e le sue scoperte sono troppo eccitanti. E, in fondo, la decisione finale non spetta a me» ribatté Singh.
Habelhas sorrise, sarcastico: «Dunque ci seguirà sino in fondo?» chiese «Il suo amor proprio la sosterrà nello sviluppo di questa parte?»
Fu la volta di Singh di sorridere: «Ho una scelta? Ho ben presente che cosa è successo a Van Gleb»
«Lei ha una memoria un po’ troppo efficiente» disse con minacciosa amabilità Habelhas «Ma in questa fase dello sviluppo del progetto non possiamo fare gli schizzinosi. Una mezza adesione è già qualcosa, e per adesso è sufficiente»
«E dopo?» chiese Singh.
«Dipenderà da lei» concluse Habelhas.
Singh si grattò il mento, tossì e si schiarì nuovamente la voce.
«Dunque come si procede?» chiese.
Habelhas gli sorrise amabilmente: «La strada che avete indicato mi pare interessante»
«Quanto tempo ho a disposizione?»
Habelhas allargò le braccia: «Il tempo, come il denaro non è un problema. Ovviamente il mio desiderio sarebbe che raggiungeste un risultato nel minor tempo possibile: la situazione precipita ogni giorno di più. Tuttavia sappiamo che la natura fa le cose lentamente… abbiamo ancora qualche margine»
Quando fu fuori Singh si avviò all’auto parcheggiata nel sotterraneo della fabbrica dismessa. Aprì la porta e lanciò dentro con violenza il faldone. Poi accese il motore e si avviò all’uscita.
Il guardiano in divisa lo osservò con occhi vitrei e lo lasciò passare.
Fuori Singh cercò di non pensare e di concentrarsi sul compito.
Un facilitatore della natura.
Dal cielo plumbeo iniziò a gocciolare una pioggia grigia, sulfurea.
Accese i fari e si avviò al laboratorio.