C’erano i mughetti. Finalmente.
La nonna amava i mughetti. Diceva sempre che quando era giovane, lei e il barone Belviso andavano nei Boschi del Roseto a cercarli. Ne raccoglievano bracciate intere e poi tornavano in cascina e li facevano sistemare dalla Jolanda nella cucina e nel salotto del pianoforte. Quando ancora c’era il pianoforte a coda.
Ricordo l’odore di talco che permeava da quel salotto, un aroma intenso e penetrante che si distribuiva tra le poltrone imbottite di stoffe e copripoltrone colorati.
E i libri. Tanti libri, dei generi più vari senza alcun apparente ordine, come se quella fosse la biblioteca di un bulimico della parola.
C’era di tutto: vecchie riviste National Geographic, improbabili pamphlet in stile old bookshop londinese, libri d’arte costosissimi e almanacchi lunari in serie impilate sul pavimento.
Un salotto eccentrico, d’autunno gravato di grappoli di moscato d’amburgo messi a disseccare su apposite gratelle appoggiate agli armadi da un lato all’altro della stanza.
E in primavera traboccante di fiori di campo, mughetti in primis sparpagliati in apparente casualità tra brocche di ferro su portacatini liberty e vasetti di unguenti dal collo sottile.
La festa, per lei, era quella d’andare a raccoglierli nei boschi in cima alla collina dietro la cascina. Un piacere che s’era presa fin quando le gambe l’avevano retta e che più tardi distribuiva con severità tra i nipoti che andavano a trovarla in quel di maggio.
La visita alla nonna era in realtà un omaggio reverenziale a una donna dispotica ed eccentrica, ella che aveva passato tutta la sua vita in una libertà assai ampia persino per le regole della disinvolta borghesia degli anni 30 del novecento. Tutti i piani superiori agli appartamenti d’ordinanza della ‘cascina’ – così lei chiamava il palazzotto che aveva alle dipendenze, senza soluzione di continuità la casa del mezzadro – erano stati occupati per tempi più o meno lunghi da artisti ch’ella nella sua maturità aveva ospitato con larghezza di spese e di esposizione sociale.
Il risultato di tale mecenatismo lo si vedeva sulle pareti del gran salotto-biblioteca, oberato e stipato fin all’inverosimile di quadri che allora io giudicavo strambi e che ora costituiscono il nucleo di un patrimonio artistico che diviene di anno in anno sempre più d’inestimabile valore, se parametrato in banali termini economici.
Eppure a pensare ora a quel mondo che mi sfiorò appena, concentrato com’era nelle brevi visite che facevo insieme a mia madre, non riesco a fare a meno di provare un morso acerbo di nostalgia insieme alla sensazione d’essermi lasciato sfuggire qualcosa di importante.
Mi sono reso conto molto più tardi che là si trovava, nel pieno d’una normalità impercettibile, da me considerata piuttosto noiosa, qualche nervo vitale dell’elaborazione culturale d’un’epoca, quella pre-visiva, in una forma d’anticipazione i cui frutti si sarebbero svelati in assai anni successivi. E così quelli che mi parevano tromboni, a volte folli, ho scoperto essere stati i precursori degli sforzi visionari che hanno portato, nell’epoca della mia maturità, frutti di audacia immaginifica.
Forse è per questo che io non mi sono mai stupito dei cambiamenti che a partire dalla fine del secolo scorso hanno stravolto le abitudini iconiche dei miei coetanei.
In realtà io molte cose le avevo già viste sul loro nascere, m’erano familiari, magari abbozzate in modo informe, e per me è stato facile riconoscerne il fondamento quando, maturate e sviluppate sono diventate forme di un modo di pensare e di uno stile visivo dominante, che affascina i più e li soggioga con la sua straordinaria malia.
Ed eccoli qua i mughetti, nei ritani del bosco. Loro invece non si sono mossi. Come i fiori dei preraffaelliti immortalati in quei quadri pieni di adolescenti così sinuose e impudiche, nel fondo.
Ad avvicinarsi e a guardare un mughetto, ci si aspetta di veder spuntare nel bosco qualche sottile ragazza discinta, ammiccante.
Così riuscivo, nella mia inconsapevole adolescenza a mandare giù l’ordine della nonna di andare a raccogliere fiori. Immaginando che qualche melodia di Chausson o di Ravel uscisse da qualche foro nella terra, una sorta di flauto sotterraneo, collegamento con le regioni dell’ultraterreno dove si celebravano ancora riti primordiali di conturbante fascino, annessi alla crescita e allo sviluppo del corpo che strappa sulla delicata maturità fanciullesca per distrarre le membra, stirarle, ingrandirle, allungarle in quella congerie di mutamenti che porterà al decadente equilibrio della maturità, prima, e dello sfilacciarsi della vecchiaia poi.
Mi aggiravo in quei boschi, immaginandomi fauno alla caccia delle mie silfidi, così come ci insegnavano le traduzioni dal latino, piene di giovinetti insidiati da naiadi lascive, che amoreggiavano senza veli sulle rive dei torrenti, all’ombra di graziosi boschetti di meli fioriti.
Chissà perché, sempre posti in mezzo a foreste ferine.
Delizie dell’immaginario ancora a digiuno della realtà del sesso umorale e liquido della realtà.
Adesso la cascina è mia e misuro il mio invecchiamento con l’impotenza nel mantenerla per quel che era, cioè un punto di acume e chiarezza nella definizione del futuro, ottenuto con discussioni, litigi, feste, aura…
Mia moglie diceva sempre che erano i tempi a essere cambiati, e ne convenivo anche io.
La lentezza d’inizio secolo, che pareva frenesia ai suoi abitatori, reduci dalla lentezza ancora più esasperante del secolo precedente, dava tempo per riflettere su ciò che succedeva in quegli interminabili meriggi passati a discutere, accapigliarsi, sfidarsi, provocarsi, che ricordo come una delle cose più eccitanti dei miei soggiorni.
La nonna signoreggiava tutto questo brulicare multiforme di linee e di idee, parteggiava ora per un artista ora per l’altro, si divertiva a metterli a confronto, anche con battute acide a volte, e così facendo operava come una saggia coltivatrice che vede crescere piante e architetture vegetali secondo il suo volere.
La cascina ora è solitaria e sbiadita. Ci vengo poche volte all’anno e sempre di fretta. Ospitare un artista mi costerebbe quanto un anno del mio lavoro ben remunerato e anche se lo facessi sono sicuro che non ne trarrei piacere, sarei annoiato dalle discussioni, mi parrebbe di girare a vuoto, convinto come sono, come siamo tutti, di vivere in tempi di maturità culturale, o meglio di decadenza del pensiero.
La parabola che sopportiamo è discendente, e non porta nuovo. Neanche nei giovani e nei ragazzi che vado a spiare nei luoghi più vivi odierni delle arti mi pare di vedere entusiasmo e forza.
Tutti sono protesi a procurarsi buone fonti di guadagno e chi non lo fa appare come un affettato e insincero libertino.
Mia moglie diceva che questo era dovuto allo spirito del tempo. Io non lo so. A me pare piuttosto una rinuncia penosa e contraffatta.
Nonostante tutto cerco anch’io di mettere qualche mughetto nei luoghi che mi par di ricordare fossero loro deputati, ricalcando ancora una volta, in modo sbiadito, una bellezza noncurante buttata lì come casuale e in realtà, forse, assai studiata.
La nonna, La nonna.
Antica signora d’una magione sul procinto di spegnersi. I miei figli non capiscono il mio attaccamento alla cascina. Per loro è semplicemente una brutta casa quasi diroccata che andrebbe venduta prima che capiti l’irreparabile e venga giù con la stortezza degli anni.
Loro non hanno mai vissuto quello che ho vissuto io qui dentro.
Le corse giù per i ritani.
I quadri che ho visto nascere.
Le musiche che ho sentito (e suonato) a quel pianoforte.
I libri che ho letto, prestatimi dalla nonna quando andavo a trovarla, con l’obbligo di una restituzione che passava attraverso una severissima verifica a proposito delle piegature sul dorso che non ci dovevano assolutamente essere. E io che leggevo tenendo il libro semiaperto e cercando di indovinare le parole che c’erano giù verso il centro della pagina. Ma era affascinante anche così, anzi lo era proprio perché così.
Che cosa possono capire loro che non sono mai andati trepidanti con i pantaloni abbassati per i boschi, pronti a tirarseli su se per caso passava un contadino? Tutto per trovare un contatto con la natura censurato dagli abiti, in solitudine ed eccitazione, immaginando d’essere una delle figure ignude ed evanescenti di quei dipinti…
Arrivo sulla soglia della porta, sotto il pergolato di vite, sempre moscato d’Amburgo – da qui provenivano i grappoli appesi alle rastrelliere – con un mazzo in mano.
« Che cosa fai con quei fiori in mano, papà?» chiede seccata mia figlia.
«Li porto in salotto» dico io.
«Ma che te ne fai? Dobbiamo andare via. Io ho un impegno alle cinque» sbuffa.
«Vai. Io rimango qui» le rispondo e faccio per attraversare la stretta porta di legno verde con il pomello di ottone a forma di pigna.
«Sei ammattito? Qui? Da solo?» chiede lei sorpresa.
«Sì, esattamente. Qui da solo. Per qualche giorno. E quando mi stufo me ne vengo via a piedi fino al paese e poi in corriera. Tu non ti devi preoccupare. Io qui me ne sto benissimo. Per quel che ho da fare…».
Lei mi guarda, guarda l’orologio, si morde le labbra: «Rufo sarà furioso se ti lascio qui da solo»
dice alla fine.
«Rufo è in Canada e noi non glielo diremo. Ho bisogno di un po’ di tempo per me» le rispondo.
«Adesso ho capito la valigia…» fa lei accennando un sorriso.
Le prendo le mani: «Sta’ tranquilla. Me ne sto qui buono buono una settimana e ti chiamo tutti i giorni»
Lei è indecisa, poi con un nuovo sguardo fuggevole all’orologio: «Spero di non fare una cavolata. Ma chi ti fa da mangiare?»
«Io da me medesimo» le rispondo con un cenno di saluto della mano.
Quando sento la sua auto che se ne va, tiro un sospiro di sollievo.
Adesso finalmente sono solo.
Vado nella camera da letto, sulla parte cieca della casa, dove s’è il terrapieno e una sola stretta finestra in alto, sempre chiusa.
Mi pare ancora di sentire il profumo di lavanda secca degli armadi della nonna. Li apro: sono tutti vuoti e appendo i pochi abiti che mi sono portato.
Mi cambio.
Poi vado in cucina.
Sul caminetto la foto di Moira. Moira era mia moglie.
«Adesso possiamo stare di nuovo un poco insieme, vecchia gallina» le dico.
Poi prendo una poltrona di vimini pencolante, la porto sullo stretto balcone e mi siedo per contemplare il tramonto.
Mangiando gli acini appassiti di un grappolo di moscato che io stesso ho sistemato nella rastrelliera l’autunno precedente.
Così.
Nell’ultimo sole di maggio.
Appagato di grandezza e di nostalgia del tempo che riempie quella vecchia casa e che, per me, per merito mio, della mia percezione di lui, non la abbandonerà mai.
Per l’eternità, fissata per sempre in questi momenti.