«È tutta questione di temperatura» borbottò il Molteni mentre versava l’olio nel pentolino.
Non era ben sicuro se il fondo dovesse essere scaldato prima dell’olio oppure se bastasse mettere sopra il gas la padella con l’olio già dentro. Le teorie gastronomiche erano diverse e in conflitto tra loro.
Quel che era sicuro però era che prima di rompere le uova bisognava che la temperatura fosse elevata.
«Più l’olio è caldo, meglio è» mormorò mentre sommuoveva il manico attaccato al relativo fondo stando ben attento a non farne venire fuori neppure una goccia.
Adesso veniva la parte più difficile.
Trovare la temperatura giusta.
Molteni aveva sviluppato un sistema tutto suo. Poiché non si poteva ficcarci il dito dentro per saggiare il calore, con il rischio che si ritirasse tutto bruciato e spellato, né si poteva, per una sua personale fissazione, mettere alcunché prima di aver versato le ova, per il semplice motivo che egli aveva disgusto di tutto quel che carbonizzava nell’ardente liquido – e paventava, per sentito dire, delle terribili conseguenze cancheriche che questo comportava – il Gianrico avvicinava il suo apparato annusatorio alla superficie, fin alla distanza minima che si conveniva acciocché nulla ardesse e dipoi annusava.
Proprio così annusava. La straordinaria qualità del suo olfatto gli diceva con quasi matematica precisione il punto esatto di bollitura dell’olio per un certo odorino che aveva imparato a cogliere con l’esperienza.
A questo punto, soddisfatto, colava tuorlo e albume ben mescolati che, in virtù del calore si rapprendevano all’istante e consegnavano al palato ghiotto del suo fattore una crosticina croccante e pepata, cibo che considerava il più gradevole dell’intero divorare quotidiano.
Molteni avvicinò dunque la sua gloriosa protuberabza olfattiva e cominciò a tirare su con l’aspiratore naturale per cogliere il momento, l’attimo giusto.
Proprio lì, così proteso, venne colto da un giramento di capo per un pensiero che gli s’affacciò in mente.
Rimase come ebete, con la pentola in mano, in quella buffa posa, chinato sul fornello a sbattere gli occhi.
Sì, perché, come in profonda trance, ebbe la visione, suddivisa in tanti riquadri minuscolissimi che presero ad affollare la sua memoria, di se stesso che annusava l’olio durante tutte le occasioni della vita in cui l’aveva fatto.
Cinquantanove anni di corteggiamenti odorosi.
A guardarli bene quei ricordi, non sembravano poi così tanti, ma gli sovvenne che egli si cucinava, solitario, le ova due volte precise la settimana da che s’era spenta, che Dio l’abbia in gloria, la sua cara mamma e cioè dodici anni prima.
E che in precedenza essa donna era così precisa e così puntigliosa nell’adempimento delle materne cure che egli non ricordava settimana in cui per due volte non fosse comparita quella pietanza sul suo desco.
Ma anche che da un tratto in poi era successo un fatto che avea rischiato di privarlo dellaprelibata ghiottoneria serale.
Una curiosità gli venne conseguente: quante volte era successo che le sue narici si fossero adoprate allo svolgimento dell’oneroso e delicato compito?
Posò la padella e spense il gas.
Egli, in quanto contabile della ditta Gavazza & C. che trattava di riciclo di ferro e ghisa – molti la definivano vilmente sfasciacarrozze – avea fama d’essere assai ferrato nei calcoli. Si mise perciò a elucubrare numeri rammentando che da almeno venticinque anni aveva iniziato la preparazione solitaria della cena nelle due sere delle ova, anzi che esse erano diventate il suo cibo proprio grazie alla gran precisione della sua smisurata madre che tutti i Martedì e i Venerdì ivasi dal materno ostello e portavasi a baloccheggiarsi con alcune amiche al gioco della Pinnacola, ora a casa dell’una amica, ora a casa dell’altra sodale.
Non ne aveva mai persa una di quelle serate, godendo di una salute di ferro e di una volontà risolutissima, tale che né i disagi atmosferici né le fatalità dei casi della vita l’avea convinta a desistere anche solo una volta dal trastullo. Che ella ovviamente chiamava «La mia unica occasione di distrazione dagli ingentissimi doveri familiari».
Egli in quei frangenti rimaneva solo e dato che aveva imparato dal codice materno che un uomo che esce nel mezzo della settimana per andarsene a divertirsi poteva essere considerato un infingardaccio e un poco di buono, s’era rassegnato a rimanere a casa secondo i dettami della previdente genitrice ed era divenuta sua abitudine non scostarsi mai da quell’obbedienza.
Dunque, due volte alla settimana per venticinque anni quante volte fa?
Se cinquantatre sono le settimane (contando anche le mezze che arrivano e le mezze che se ne vanno dal vecchio anno a quello nuovo), occorre moltiplicarle per venticinque.
Cinque per tre quindici riporto uno, cinque per cinque venticinque, ventisei con il riporto. Tre per due sei, cinque per due dieci. Quindi sommo cinque, sei più sei dodici riporto uno, due più zero due, riporto uno, quindi tre e infine uno. Milletrecentoventicinque settimane. Per due.
Duemilaseicentocinquanta.
Dunque l’era almeno duemilaseicentocinquanta volte che egli odorava l’aroma dell’olio bollito per individuare l’esatto momento nel quale attuffare la delicata biologia interiore ovaria.
Tutto soddisfatto riaccese il gas e attese che il calore salisse nuovamente al punto sublimico.
Stava odorando ormai e giudicava imminente lo zenit adatto per la cottura, quando gli sovvenne un altro pensiero.
Che cioè il suo metodo non s’era da subito affermato. Egli l’aveva maturato negli anni. Era giunto poco per volta e dopo innumerevoli tentativi e alquanto studio a percepire l’esatto mutamento di aroma calorifico.
«In quanto tempo ci sono arrivato? Quando ebbi l’idea di usare il metodo? Quando mi sono potuto dichiarare soddisfatto dei risultati?»
Lo colse una leggera nausea. Era sempre così quando calava su di lui la sensazione terribile e incompleta dell’alea.
Il tremendo, ottuso accidente.
La certezza della mancanza di certezza.
Capì che doveva sottrarre alla bella cifra parecchie decine di casi, se non almeno un centinaio. O forse di più.
Da quanti anni cioè usava in modo efficiente il naso per stabilire la giustezza della temperatura?
Questa questione lo affranse.
Si pentì di non aver segnato su un apposito quadernetto i primi tentativi e magari anche qualche appunto in cui discuteva con se stesso dei risultati.
Spense l’olio e appoggiò la padella sul ripiano ligneo della cucina.
Questo vicissitudine meritava un poco di attenzione e di riflessione per limitare almeno i danni per non poter pensare, purtroppo, a un risultato anche solo parzialmente giusto,.
Diciamo un anno per giungere alla vera acquisizione del metodo?
Mmmm, forse un tempo un briciolo più lungo.
Un anno e tre mesi? Forse troppo. Diciamo un anno e un mese e mezzo.
Sì forse questo era il lasso di tempo che gli aveva permesso di sviluppare la sua abilità con proficuo risultato. Quindi:
cinquantatre più quattro più due.
Così, una stima un po’ abborracciata ma credibile.
Cinquantanove settimane. Come i suoi anni.
Per due.
Centodiciotto.
Come il numero della Croce rossa.
Quindi duemilaseicentocinquanta meno centodiciotto.
Questo calcolo riusciva a farlo senza neanche incolonnare a mente i numeri.
Faceva duemilacinquecentotrendadue.
Finalmente soddisfatto riaccese per la terza volta il gas e quando l’olio fu a temperatura ideale (duemilacinquecentotrentatre) vi gettò l’uovo spolverato di pepe. Il corpo albuminoso si rapprese al punto giusto e il Molteni, dopo averlo salato e scodellato su un piatto, se lo ingoiò in quattro bocconi successivi.
Alla fine stette a guardare il piatto vuoto completamente soddisfatto, poi si avviò al divano, come di consuetudine, accese il televisore e si addormentò, totalmente pacificato e cosciente che una vita senza controllo, come diceva sempre sua madre, non era una vita degna di essere vissuta.