«A bocce ferme non hai ragione» disse Battistin e si scolò l’ultimo bicchiere di vino prima di scendere al lavoro.
L’altro fece spallucce: «Tanto quando c’è di mezzo le donne non si ha mai ragione» replicò amaro.
«In questo hai… ragione» Battistin rise, poi si terse il sudore con un fazzolettaccio grigio di sporco: «Adesso devo andare» e posò due monete sul bancone.
L’oste raccolse il denaro e lo fece sparire dentro la cassa che si aprì con uno squillo.
«Quand’è che cambi sto vecchiume?» fece Battistin alzandosi a fatica dallo sgabello.
«Finché funziona…» sbottò l’altro.
Fuori era un po’ più fresco per via del vento che arrivava dal mare. Barcollando, Battistin si avviò verso la fermata dell’autobus sull’Aurelia. Aprì la sua borsa a tracolla e controllò che ci fosse tutto, poi tirò fuori il distintivo del Trasporto Pubblico e se lo appiccicò addosso, sul taschino del camiciotto che era già pezzato di sudore.
Arrivò alla fermata brontolando e si sedette. Quelli che aspettavano lì, vicino a lui , lo guardarono in tralice e poi cominciarono a frugare nervosamente in tasca.
“Eh, maledetti portoghesi” pensava intanto il Battista facendo finta di niente “Adesso vi faccio vedere io il culo che vi faccio. Voglio togliermi lo sfizio di stangarvi tutti quanti oggi”.
Questo era un pensiero del tutto anomalo e completamente estraneo all’indole pacifica e paciosa del Battistin. Di solito infatti egli era un gran conciliatore e detestava inguaiare qualcuno, il che era ben strano per uno che faceva il mestiere di Controllore dei Biglietti del Pubblico Trasporto. Quando passava lui era (quasi) sempre tutto regolare: i malcapitati che venivano beccati senza talloncino di viaggio venivano cortesemente invitati a procurarsene uno in fretta e furia facendoselo prestare da qualcuno che l’avesse doppio o pagandone uno del carnet dei viaggiatori più prudenti. Insomma per prendersi una multa del Battistin bisognava proprio volere bigiare il pedaggio e dimostrarlo in modo arrogante e irrispettoso. Ma quel giorno la luna gli era andata storta fin dal mattino ed egli aveva una gran voglia di prendersela con qualcuno, qualsiasi fosse, il primo che gli fosse capitato tra le mani. Ci si potrebbe chiedere quale che fosse l’evento tristo per il quale il Battistin fosse divenuto così irascibile e disposto a darsi al tasso alcolemico di guardia come aveva raggiunto quella mattina, ma forse è una questione che ci divertirebbe dalla vicenda la quale viene testé narrata. Ci basti sapere ch’egli n’aveva una per capello e che non v’era del tutto estranea la di lui moglie.
Era essa una megera viragine piuttosto bassotta che larghetta con l’orrendo carattere di coloro che ritengono, per il solo fatto d’essere maritate e a dover condividere il giogo del matrimonio col malcapitato che se l’era prese – o meglio ch’esse s’erano tirate in casa –, di dover avere la parola ultima su ogni decisione riguardasse le questioni di famiglia.
La questione sul tavolo, la sera prima, era stata per quel belino di Roberto, il figliolo ormai quasi trentenne che, succube della terribilità caratteriale della consorte, faticava ad adire a una sua indipendenza e in casa si comportava come se avesse né più né meno che dodici tredici anni, quand’egli invece ne presentava la rispettabile cifra di ventinove.
«Metti il maglioncino» diceva la madre «e lo sciarpino e il cravattino»
Al sentire tante serie di raccomandazioni così perniciose per la formazione del buon carattere del giovine, egli, il Battista, educato piuttosto rudamente dalla sua di madre che non s’era certo lasciata spaventare né dalla guerra né dai pericoli di ciò che n’era seguito, sbuffava e strizzava gli occhi quando vedeva la sua prole seguire così disossatamente e senza nerbo qualsivoglia indicazione – ma lui li chiamava col retto nome di capricci – che venisse a mente della padrona di casa, senza alcuna cura critica, alcuna puntualizzazione, persino osservazione che si sarebbe potuta fare sulle pretese di obbedienza accampate dalla follia crescente di quella donna, amata pur un tempo, che ora gli riusciva quasi intollerabile.
Da parte sua al Robertino parevano non calere affatto le preoccupazioni del padre, ed egli scientemente non dava mostra d’accorgersi di quanto ripugnanti fossero le richieste e perfino il comportamento di quella sua madre snaturata.
Dicevamo che la questione era sorta sul fatto che il giovine continuava a voler essere e restare zitello e dipendente dai genitori non dimostrando il minimo interesse per la vita di relazione d’una coppia e l’autonomia, anzi ostentando nei confronti di tutti coloro che s’erano impegolati con una donna, una sorta di sorda ostilità annoiata che aveva dell’inquietante.
E così Roberto giocava a fare il bell’Ulisse sull’isola di Nasicaa trascurando di cercare e trovare le sintonie d’animo e di affetti che rendono sì unica e desiderabile a un adulto la vita, pria che la maturità arida e desolata della vecchiaia privi di ogni gioia e aspirazione il primitivo ardore dell’essere umano.
La sera antecedente la questione era approdata finalmente al suo centro durante la cena, quando, buttando lì un borbottìo da niente il Battistin avea osato lamentare che la la di lui bocca, del figlio ovviamente, era l’ora che n’uscisse per un verso o per l’altro dalla casa, perché egli era stufo di mantenerlo a ufo e di pagargli oltre a tutto anche le spese ingenti ch’egli badava a praticare ogni settimana con uscite varie, e cene e ristoranti e bowling e altre amenità di questo genere: al termine di questa requisitoria mezzo sbuffata il Battistin concluse che d’ora innanzi avrebbe chiuso il rubinetto e che se il discolaccio avesse voluto ancora uscire con i suoi sodali, avrebbe dovuto sborsare lui di tasca sua il valsente necessario. In caso contrario sarebbe rimasto in casa buonino buonino a guardarsi la televisione se non trovava di meglio da fare.
Come ebbe terminato il pistolotto tra i volti ingrippati dei due che lo osservavano gonfi d’ira e di rancore, vieppiù rafforzate dal livore di cui sembravano animate quelle parole, la di lui consorte strabuzzò gli occhi, dispiegò l’indice aguzzo della mano destra e attaccò a smozzicare: «Tu…. Tu…. Tu….»
Il Battistin la guardò senza immediatamente realizzare: «E allora? Che lo difendi questo arnesaccio?»
«Come ti permetti?» riprese lei facendoglisi sotto sdegnata «Insultare tuo figlio che si dispera che non trova lavoro… come puoi…»
«Disperarsi?» ribatté lui con una risatina acida «A me mi pare che questo qui tutto faccia fuorché disperarsi, visto che il cappello dal chiodo non l’ha mica mai alzato. Che si metta a cercare il lavoro, senza sperare che il lavoro trovi lui. Anche se ho l’impressione ch’egli voglia che se ne stia ben lontano, ostrega»
«Sei un insensibile. Un arido vecchio privo di sentimenti» rispose lei al sommo del disprezzo.
«BUM» fece lui fremendo «da quando ti metti a usare anche ‘ste parolone con me, io che ti ho quasi raccolto da in mezzo a un marciapiede e lasciamo stare il resto»
«Porco» gli urlò in faccia con il volto congestionato.
«Sa, sa, che è meglio che si va a dormire. Comunque ho detto che da domani questo di sghei non ne vede più neanche mezzo. Morire di fame non lo lascio, ma se vuole divertirsi che se li guadagni»
«E come faccio?» berciò il ragazzo «Domani ci ho la gita alla marina con…»
«Mare? Il mare te lo faccio vedere io a suon di ceffoni. Basta così Basta a tutte e due. Se ci hai i soldi ci vai, se no, no» e rosso di disappunto se n’andò a letto lasciandoli trasecoli alquanto perché così congestionato d’ira non l’aveano mai visto.
Il mattino seguente dunque, ancora rosicato per quella faccenda era uscito prima che i due aprissero le palpebre, alquanto prima del solito, e aveva fatto il primo turno con una certa stizza, dipoi all’osteria avea cercato di calmare questo suo tormento interno con qualche bicchiere, ma l’effetto pareva ritardare perché quand’egli uscì sentiva lo stesso il gran peso sullo stomaco di quel discolaccio del figliuolo che non avea finora combinato nulla di buono e altrettanto nulla di buono parea promettere.
«Cerca cerca che ti conviene» mormorò con una certa maligna soddisfazione davanti al ragazzo seduto sul pulmann al quale aveva fatto la solita richiesta: «Biglietto prego»
Egli s’era fatto di mille colori e poi aveva cominciato a frugare da per tutto, nelle tasche dei pantaloncini, nel portafoglio, nello zainetto che portava sulla schiena, aumentando, proporzionalmente al tempo che passava e all’assenza di risultati della ricerca, il sudore che iniziava a imperlargli la fronte.
«Il biglietto l’ho pagato, glielo assicuro… è che non lo trovo…»
«Sissì come no» disse lui con una certa ironia e iniziando a tirare fuori il blocco dei verbali.
«Attenda solo un minuto che vedo ancora…» chiese il ragazzo affannato.
Battistin trionfante si piantò sui due piedi: «Facciamo in fretta giovanotto» disse.
Quello iniziò novamente a guardare dappertutto a frugarsi nella tasca quando finalmente trionfante tirò fuori un biglietto tutto spiegazzato.
Battistin lo prese e lesse sul biglietto la data del giorno precedente. Stava per prendersi finalmente la sua rivincita e sbattere in faccia al reo il suo fallo scaraventando su di lui tutta l’ira che provava per quel rosico che tormentava il suo intimo quando, guardato meglio il reo, vide che le braghette di jeans erano schizzate di minuscole gocce bianche e che sulle braccia egli recava tracce di lordate di calce.
Allora gli prese come una commozione che valse a fargli passare d’istante l’ira.
«Dove devi andare?» gli chiese ammansito.
«A casa. Ho finito il turno di lavoro» rispose quegli, reprimendo uno sbadiglio.
«E cosa fai?»
«Aiuto un parente che fa l’imbianchino. Un lavoretto per l’estate…. Per guadagnarmi qualcosa…»
«E che fai d’inverno?»
«Studio. Faccio l’Istituto commerciale»
Battistin guardò ancora una volta il biglietto. Istituto commerciale. Lo stesso che aveva fatto il Robertino.
«Va bene» disse riconsegnando il biglietto al ragazzo che se lo infilò in tasca e si rimise a sonnecchiare.