Ecco, doveva essere una soffitta, quella.
La porticina di legno rosa dagli anni e dalla disusanza ad aprirsi gli dà un fremito di angoscia. Ei si era trascinato fin lì alla ricerca di un’ultima occasione, un ultimo calore, un finale arpionamento di sentimento che lo aiuti a uscire dalla vita.
Si guarda intorno, anche se è certo ormai che nessuno ci sia, né lì, né in tutto il paese in rovina che ha trovato, né in tutto lo stato, né in tutto il mondo. Egli è l’ultimo. L’ultimo doloroso incresparsi di coscienza di quel gran mare che era l’umanità.
Era capitato tutto pian piano, silenziosamente. Lo ricordava bene. Eco fosche in rete. Bufale alla televisione e qualche profeta di sventura. Anzi, molti profeti di sventura che cianciavano sulla fine del mondo. Quanto rideva quando sentiva quelle bufale. E provava a immaginarsi, allora, il mondo, stanco e barbuto che s’accasciava a terra, stufo dei suoi prodotti, gli uomini, che gli aveano rovinato la sua stessa natura e la sua equilibrata essenza. Sogghignava ripensando a quante catastrofi annunciate era sopravvissuto il giocoso circo del pianeta terra. Quante date di termine bellamente sorpassate e aggirate. Ma le soglie decisive non appaiono mai in tutta evidenza. Un’ondata di epidemia è un’ondata di epidemia e basta che non tocchi la terra in cui vivi per essere qualcosa che appartiene a qualcun altro. E tante erano quelle che si erano succedute in tante parti del mondo, ma tutte contenute e non bastevoli per render ragione di un senso complessivo, fin quando le cose aveano cominciato a diradarsi.
Lui era solo e non se n’era accorto subito. Ben diversa la situazione di chi avea cominciato a perder, giovani, mariti, o mogli o figli che finivano così, languenti senza un motivo di malattia preciso, quasi che essi avessero cominciato a spegnersi o avessero improvvisamente sentito stanchezza di vivere. Nessuna patologia precisa, semplicemente un tranquillamento mortifero progressivo, dolce, senza spasmi, senza sangue, quasi senza dolore. Una catatonia incipiente che rallentava i ritmi vitali, trasformava il soggetto in bisognoso di sonno sempre più continuo, fin quando un bel mattino te lo trovavi lì, stecchito. Senza un motivo.
Ma lui era sfuggito a tutto questo. Gli appelli delle organizzazioni mondiali della salute dapprima timidi poi sempre più roboanti lo aveano lasciato indifferente. Roba d’altri pensava. E, sotto sotto, un tarlo gli s’insinuava nel profondo del suo pensiero. Che in fondo non era poi così male che qualcuno si facesse da parte. Dieci miliardi di abitanti erano troppi per un pianeta solo. Fossero un po’ diminuiti per cause naturali, senza spargimenti di sangue, non arebbe fatto male a nessuno. I paesi si sarebbero allargati e le risorse immense che s’erano dovute agitare per mantenere tutto quel po’ po’ di spirito vitale germogliato in individui, suggetti pieni di coscienza, sarebbero state meglio distribuite e meglio impiegate. Forse, pensava egli, la natura si riprendeva quel che le era stato tolto con tutto quell’affannarsi di amare, sentire, addolorarsi, agitarsi e procreare che era stata la cifra dell’essere animale nomato uomo.
Era lì che le cose erano cominciate a diradarsi.
Lui non era il solo ovviamente che pensava la Natura con la ENNE maiuscola, come Entità in grado di pensare e di riprendersi una rivincita. Ben prima che lui se ne accorgesse, altri, o perché l’aveano previsto, o perché ne erano coscienti aveano lanciato l’allarmante strido: l’umanità sta finendo.
Sì, rideva ancora lui, finendo, finendo: tutt’al più diminuendo, naturalmente senza guerre, senza esplosioni di violenza.
Egli tenta la porta della soffitta con le sue mani fragili da vecchio. Tutto il lordume trovato sulla scala per salirvi, non lo stupisce più. Aveva smesso di stupirsi ormai da molti e molti anni. Le case abbandonate decadevano pian piano e anche se nessuno andava più né a violarle né a saccheggiarle, quand’anche esse fossero rimaste così, immutate come erano state lasciate quell’ultimo giorno della morte dei loro abitanti, pure esse decadevano, le tappezzerie, non si sa perché, si sporcavano, si strappavano, i corridoi si riempivano di lordume fino a quando la casa abbandonata non diveniva una casa abbandonata. Quante ne aveva viste durante il frenetico girare di paese in paese in quei primi anni. Dapprima abitazioni isolate che si spegnevano, poi quartieri interi e infine interi paesi fatiscenti. Fin quando un giorno il collegamento della rete decadde.
Lo ricordava bene: era apparso sullo schermo del suo dispositivo portatile la scritta: “Sospensione temporanea del servizio per mancanza di personale”. Poi la temporaneità era diventata definitiva. E così subito dopo la televisione. La radio era morta per ultima, complice la mancanza di elettricità in parti sempre più estese di territorio. Del resto a che cosa serviva l’elettricità se non c’erano più persone che se ne servivano?
Era allora che egli aveva cominciato a cercare i superstiti. Essi si raggruppavano in zone sempre più isolate e nascoste, nella segreta speranza che l’epidemia che colpiva l’umanità ne rimanesse esclusa e venisse allontanata dalla distanza e dall’isolamento. Ma a nulla era valso.
La porta della soffitta si apre e rivela un locale ampio, pieno di oggetti accatastati alla rinfusa, senza un ordine preciso. Grandi mucchi di carabattole, di sedie rotte, casse e scatole logorati dal tempo. Alcuni di questi contenitori sono sventrati e lasciano intravvedere a terra interiora piene di oggetti, quaderni, cartoline, fotografie, lettori digit.
Egli si trascina a fatica verso il centro di quell’accatastamento: sembra un’esedra circolare fatta apposta per lui adesso che è l’Ultimo e che sta giungendo il momento.
La casa dove si trova è o meglio era uno di quei rifugi di un’umanità decimata, spezzata, angosciata, intimorita, svenata da questa languida fine. Egli era riuscito a trovarne l’ubicazione nei locali deserti dell’ufficio di raggruppamento dei sopravvissuti. Il volume infolio di carta recuperata era aperto sulla mappa e una scrittura tremolante, forse del vecchio che era accasciato per terra vicino al bancone – ma doveva essere morto ormai da parecchio, svuotato, anzi mummificato dal clima secco e freddo della montagna su cui si erano arroccati quei volenterosi finali – ne indicava con precisione il nome accompagnato da una didascalia: “Ultimo ridotto di sopravvissuti della regione” E poi una data: 2097. Quanti anni prima?
L’aveva dimenticato. La disperazione, l’inutilità del tempo segnato gli aveva fatto perdere il conto. Venti anni? Trenta? Tutti passati a prepararsi per quel viaggio verso l’ultimo ridotto. Viaggio che aveva esitato a fare, con la consapevolezza, la paura, di arrivare a trovare un paese nuovamente e ultimativamente deserto, come aveva effettivamente trovato.
Il vecchio prende una seggiola sfondata e la pone al centro di quel cerchio. Poi si avvia ad aprire una finestrina collocata nella parete a triangolo. Da quello squarcio nel muro entra una cascata di luce arancione profusa in un tramonto che sembra beffarlo. La natura che si prende la rivincita sugli uomini. In effetti nonostante la tragica epopea finale di quell’umanità angosciata interrogantesi sulla propria morte e sul senso della breve apparizione sulla terra, albe e tramonti continuano a svolgersi tranquillamente all’orizzonte, come se nulla fosse, come se lo spegnersi così dolce della civiltà non li riguardasse.
Rimane lì affacciato a contemplare quello splendore. Poi, curvo, si avvicina alla sedia sceglie una cassa, la apre.
Un generatore di antica foggia emerge per primo e un lettore digit. Egli li collega insieme: miracolosamente il lettore si anima e una musica delicata si diffonde nella soffitta. Sorride, chiudendo gli occhi.
Riscotendosi, prende a sfogliare un album di antiche fotografie. Vede bambini sorridenti, ragazzi con negli occhi quell’ansia di crescere e di realizzare qualcosa che egli ha dimenticato da tempo. Uomini e donne vestiti con abiti festosi circondati di simili, ambienti diversi che si succedono segnati dai sempiterni sorrisi congelati in quegli scatti.
La voce che canta, ormai morta da tempo, svolge il filo di un’evocazione che si accorda in mirabile sintonia con l’empito suggerito da quelle immagini sfocate.
E gli oggetti. Quaderni fitti di scrittura, giochi consumati da piccole mani, abiti ripiegati con cura che si sfanno nella polvere.
Il sole sta per immergersi nella notte in un trionfo di riflessi d’oro.
La sua attenzione viene attirata da una piccola coperta su cui è scritto un nome: Andro.
La prende e la sfoglia: è ancora resistente e calda. La dispiega con cura.
Andro.
La scritta rossa campeggia, elegantemente ricamata, sulla fodera serica della coperta.
Poi il nome. Andro.
Riapre un albo, dopo essersi appoggiato il tessuto polveroso sulle ginocchia. Comincia a far freddo. Ed ecco l’immagine. Andro. Un bambino biondo, dai tratti regolari, gli occhi tagliati dritti sotto la fronte nivea.
Sistema quell’immagine sopra il mucchio vicino alla sedia. Si avvolge nella coperta. Chiude gli occhi. Un piccolo calore gli intiepidisce il passaggio. Che arriva.
E il mare adesso è calmo.
Totalmente calmo.
Finalmente senza più increspature.