5° Racconto della Serie Mentalist
La sottile arte dei mentalisti non si impara: si eredita. È dunque necessario sapere che tra gli uomini si aggirano in incognito mentalisti di diverso livello ed esperienza in grado di dirigere silenziosamente i pensieri e le azioni dell’umanità.
Ogni mentalista possiede un luogo segreto celato da qualche parte nel mondo in cui accumula oggetti, reperti e cimeli raccolti nel corso della sua lunghissima vita. Va detto infatti che molte opere d’arte credute perdute o scomparse per sempre non lo sono affatto. Sono bensì custodite in qualche caveau nascosto agli occhi dell’umanità, luoghi inviolabili sigillati con innumerevoli meccanismi mentali che me decretano l’assoluta sicurezza.Inutile dire che i essi si trovano anche archivi interi di documenti la cui esistenza porterebbe a infinite catastrofi politiche e sociali. In questo senso i Mentalisti amano definirsi i ‘Difensori dell’Umanità’.
Episodio 5 – La tana
«È sicuro di volersi fermare qui?» l’autista del taxi si voltò per osservare il passeggero con una certa diffidenza. La strada che costeggiava l’Hitotsuse si snodava nella gola stretta del fiume a mezza costa.
«Accosti in quello spiazzo» rispose asciutto Delorean.
L’autista si fermò nella stretta piazzola di emergenza. Delorean aprì la portiera, recuperò lo zaino che stava al suo fianco e scese in strada. L’acqua rumoreggiava in basso, in fondo alla scarpata. Una brezza fresca scosse i cespugli di piante alla base della parete verticale di cemento che conteneva una ferita nella collina, forse un’antica cava.
«Quanto vi devo?» chiese Delorean.
«Ottomila yen» rispose il taxista.
«Eccovene quattromila» disse Delorean porgendo un rotolo di biglietti.
«Grazie, san» disse l’autista cerimonioso. Intascò il denaro poi si immobilizzò. Delorean chiuse la portiera. Camminò per duecento metri sul ciglio della strada fino a un sentiero che partiva verso una valle rigogliosa di alberi. Si concentrò per attivare la visione a distanza e controllò l’ingresso della Tana.
Era tutto a posto.
Con un impulso cerebrale legato alla cancellazione di un paio di ricordi molto recenti, liberò l’autista del taxi che aspettava nello spiazzo. Questi si riscosse, si passò la mano sulla fronte, si chiese che cosa facesse lì, scosse il capo e ripartì lentamente per ritornare a Nishimera, dopo aver fatto un’inversione a U.
Quando fu solo, Delorean imboccò rapidamente il sentiero che saliva tra gli alberi e ben presto diventava una traccia appena percettibile nella vegetazione fino a scomparire quasi del tutto.
Quando arrivò all’isoipsa dove aveva sistemato il primo dissuasore poco mancò che anche la sua mente diventasse preda di una inquietudine assai vicina al terrore.
Sorrise. Sì, era stato abile a suscitare la paura in modo improvviso, tale da ghermire la vittima e quindi da provocarne la fuga piuttosto che escogitare chissà quale trappola fisica che non solo non avrebbe funzionato ma che sarebbe anche potuta essere scoperta da qualcuno.
Oltrepassata anche la seconda isoipsa con il solito sigillo si avviò verso un macchione di alberi particolarmente fitto. Nessuno veniva mai lì e la vegetazione era rigogliosa e sovrabbondante. La parete di roccia sullo sfondo era completamente coperta da edera.
Oltrepassato l’intrico di alberi arrivò a un praticello pieno di detriti sassosi. Si avvicinò alla base del roccione, strappò qualche ramo e mise in luce una massiccia porta di ferro arrugginita, con complicate decorazioni corrose dal tempo.
Posò la mano sopra un fregio e con un fremito un antico meccanismo si animò. Pian piano la porta si aprì e Delorean entrò. Non appena ebbe varcato la soglia il portone si richiuse e le edere ricrebbero velocemente, ricoprendo completamente il vano.
Il corridoio sapeva di muffa e di stantìo. Un minuscolo globo di luce precedeva Delorean. Adesso avrebbero dovuto iniziare le scale per scendere nella tana.
Il tunnel si allargò in una stanza ovale da cui si dipartiva una scaletta molto erta che si tuffava nel buio, in basso. Finalmente giunse in un androne sul quale si affacciavano due usci di legno massiccio ricoperti di polvere. Delorean smaterializzò la polvere restituendo al colore del legno la sua soffusa morbidezza. Istantaneamente una luce diffusa rischiarò progressivamente l’ambiente. Nell’androne c’era un armadio. Delorean si spogliò completamente e posò i suoi abiti in uno scomparto dell’armadio. Poi aprì l’altra anta e prese un kimono di seta riccamente ricamato con figure di draghi e fiamme. Lo indossò stringendoselo al petto, calzò un paio di sandali di giunco ed entrò nel primo uscio.
Di là, un salotto confortevole, perfettamente circolare, si affacciava su una grande vetrata rotonda, abilmente dissimulata nella roccia che offriva la vista di un maestoso tramonto. Delorean si sedette sull’unica poltrona che troneggiava davanti alla vetrata.
«Il sole tramonta ogni giorno» recitò a se stesso.
Era la frase preferita di un suo antico maestro Zen, vissuto tre o quattrocento prima, non ricordava con precisione. Quel che invece aveva ben presente nella mente era il suo aspetto.
Tuttavia non doveva distrarsi. Il tempo da passare nella tana non era molto, lo sapeva, e doveva sfruttarlo al meglio per prepararsi alla missione che lo attendeva.
Decise di cominciare con un metodo di concentrazione neutra che aveva creato lui stesso. Immediatamente i suoni della musica tradizionale giapponese si insinuarono con delicatezza nella stanza. Ovviamente erano prodotti dalla sua mente e quindi non aveva la certezza che quella fosse davvero una musica tradizionale autoctona. Ma la sua tutto sommato buona cultura e la fiducia che aveva imparato a nutrire in se stesso per la creazione di atmosfere simili ebbero il potere di rilassarlo ugualmente.
Dopo qualche istante gli venne voglia di coricarsi. Delorean si alzò prese un futon da un armadietto basso, lo srotolò e lo distese al centro della stanza. Poi vi si stese sopra, chiuse gli occhi e iniziò il rilassamento vero e proprio.
Quando riaprì gli occhi l’alba stava chiaroreggiando all’orizzonte.
Delorean si stirò. Aveva dormito di gusto, profondamente, come non era più riuscito a fare da tempo. La Tana lo aveva, come sempre, ghermito e lo aveva ricondotto nell’alvo più recondito di se stesso. Si alzò, andò nella stanza da bagno e si immerse in una vasca piena di acqua profumata tiepida. Quando uscì, indossò il chimono e si apprestò a entrare nello Scrigno.
Non era una faccenda semplice, neanche per lui che l’aveva creato e sigillato: davanti al pesante portone di bronzo decorato conficcato nella roccia e sigillato dovette ricorrere a tutta la sua concentrazione per neutralizzare l’impianto mentalista di protezione. Dopo qualche istante la materia di cui era fatto il portone cominciò a sfarfallare lievemente divenendo appena fluorescente. Infine assunse la trasparenza del Kartan. Delorean, sudato in volto si apprestò a traversarlo, cogliendo appena una sfumatura di calore sulla sua pelle. Se qualcuno con un’altra lunghezza d’onda mentale avesse osato compiere quel passo sarebbe stato folgorato e ridotto in minuscole particelle dalla tremenda forza catalizzata nel portone.
Quando fu dall’altra parte, Delorean mollò la presa e il portone divenne nuovamente un ostacolo insormontabile di bronzo, tutt’uno con la parete di roccia.
Davanti a lui, in un’enorme stanza rotonda scavata nella roccia, con un colonnato pulito e armonioso che la circondava erano esposti, come in un museo creativamente disordinato, i cimeli più preziosi accumulati nel corso della lunghissima esistenza di Delorean. Dipinti creduti perduti per sempre erano lì, insieme ad antichi manoscritti di cui s’era persa ogni traccia, incredibili tesori di pietre e gemme preziose credute distrutte da calamità belliche o naturali erano state accuratamente raccolte e portate in quel luogo di conservazione. E poi reperti legati a grandi personaggi storici conosciuti personalmente da Delorean, e infine ricordi personali, ritratti fotografici, casse di corrispondenza, e via via cassette di sicurezza in cui erano contenuti hard disk, congegni di memorizzazione sempre più sofisticati, prototipi elaborati attraverso i decenni, mobili raffinati disposti secondo un ordine apparentemente casuale ma dotato di una piacevole varietà.
Delorean fu attraversato come sempre da un fremito di piacere: si avvicinò al pianoforte che era appartenuto a Beethoven e ne sfiorò i tasti con un rapido arpeggio, ancora argentino.
Sospirò, poi si avvicinò a una cassettiera piena di decorazioni intagliate nel legno. Aprì un paio di cassetti e ne trasse due buste gialle, voluminose.
Si sedette a un’antica scrivania ministeriale: alzò la serrandina ondulata e aprì le buste, rovesciando sul panno verde lindo un pacco di documenti che si mise a scartabellare.
Quando trovò ciò che cercava lo posò sul piano ancora sgombro, prese un elaborato cellulare e scattò una fotografia. Poi fece la stessa cosa con l’altro pacco di documenti.
Quando ebbe finito riempì di nuovo le buste e le rimise al loro posto. Avviandosi verso il portone di bronzo si accostò a un complicato marchingegno formato da un’incredibile serie di ingranaggi d’ottone. Prese una chiavetta che penzolava attaccata a una catenella, la inserì in una fessura poi caricò la macchina. Questa cominciò a ronzare mentre una serie di cifre si srotolavano attraverso alcune fessure tagliate su una superficie metallica lucida, incisa con ghirigori che ricordavano le rune antiche. D’un tratto con un lieve ronzìo si udì uno scatto e gli ingranaggi si fermarono. Delorean si annotò mentalmente i numeri in rilievo sui cilindri d’ottone che si vedevano attraverso la fessura. Storse il naso: «Non va per niente bene» disse, e quasi involontariamente strinse vieppiù il cellulare.
«Vediamo di rimediare alla situazione» disse tra sé e sé mentre il bronzo cominciava la sua vibrazione.
Quando ebbe nuovamente sigillato la Tana provvide a scegliersi un abito casual da uno degli armadi. Diede uno sguardo nei dintorni, lanciò il richiamo all’autista del taxi e uscì dal rifugio, tuffandosi nella boscaglia.
Quando arrivò sulla strada, il taxi era lì ad attenderlo.
Con indifferenza Delorean salì. Il taxista si riscosse.
«A Nishimera. All’aeroporto turistico» disse in perfetto giapponese.
«Certo san» rispose l’uomo al volante.
Mentre risalivano L’Hitotsuse per arrivare alla cittadina, Delorean ripassò mentalmente i passaggi di quella faccenda. Poi nei pressi dell’aeroporto, estrasse il cellulare. Scelse le due immagini, le allegò a un messaggio e premette il tasto di invio.
“Il ballo è cominciato. Vediamo che effetto faranno queste carte” pensò mentre pagava il taxista. Poi con passo veloce entrò nell’aeroporto, attivò il paradigma di ‘non visione’, attraversò l’atrio e si diresse senza che nessuno lo fermasse alla pista dove lo attendeva un piccolo jet privato.
Senza dire nulla a nessuno e soprattutto senza chiedere alcun permesso il piccolo aereo rollò sulla pista e partì sfrecciando per una destinazione sconosciuta, proprio mentre una colonna di mezzi della polizia a sirene spiegate si dirigeva all’aeroporto bloccando tutte le entrate e le uscite. Troppo tardi.