Affànnati, respiro lanugine,
solletica gola e nari,
spingi calore negli ultimi alveoli,
soffoca i dettami
di certe scabrità dell’io.
Non voler conquistare
la mente nell’amplesso,
termina prima sul ponte
rilucente del diaspro.
Orsù dure pietre,
raffreddate l’anima
spegnete ardori,
uccidete le ultime dolci
giovani ambiguità.
Quando il freddo
penetra le ossa
e Male più non le lascia
gemere,
allora il viaggio è finito davvero
e resti come tizzoni
più non sfioreranno il soffio.
Una brezza sconvolgerà
e raccoglierà il disegno
ormai incompiuto
delle tue parole.
Cenere a folate si alza
dal viso e pochi segni
concertano questo immenso
disagio d’essere.
Non più figli e famiglia
o colore e calore
o genio di risate introverse
si parte da qui.
Non so perché lo spirare
delle madri parole
cessa a volte
e muore sulle labbra
profanando le immagini
confinate nel tempio.
Pensa, i volti morti,
covoni di grano falciati
dalle guerre che hanno cessato
i sorrisi.
Per tutti una lotta
più dura discerne l’ordito
e anche tu sei stelo
di grano divelto
da passeri passanti
che caso non fanno
ai confini del campo.
Tutto spegne o smorza
il rantolo ormai pigro
che non vuole parole
ma silenzi sterminati
associi ai corpi ingialliti.
Potrei suscitare
lo zirlo del merlo e
lo vorrei come me,
lontano,
triste,
spegnentesi.
(1978)